Alle ore 19.00 di questa sera, il Santo Padre Francesco si è recato nella Basilica Papale di San Giovanni in Laterano per l’incontro con la Diocesi di Roma. Al suo arrivo, il Papa è stato accolto da S.E. Mons. Angelo De Donatis, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma. Erano presenti, tra gli altri, i vescovi ausiliari, i sacerdoti, i religiosi e le religiose ed i rappresentanti laici delle parrocchie, delle realtà ecclesiali, delle cappellanie e delle scuole cattoliche della città. Questo incontro ha concluso il cammino di riflessione sulle “malattie spirituali” avviato, su invito dell’Arcivescovo Vicario, dalle parrocchie e dalle prefetture all’inizio della Quaresima. Quindi, dopo il momento della preghiera d’inizio, don Paolo Asolan, Professore del Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense, ha presentato al Santo Padre la sintesi dei lavori pervenuti dalle parrocchie curata da una Commissione diocesana. Successivamente il Papa ha risposto a braccio a quattro domande che gli sono state rivolte da S.E. Mons. Angelo De Donatis a nome dei presenti e, subito dopo, ha pronunciato il Suo discorso.
Pubblichiamo di seguito la trascrizione del dialogo del Santo Padre e il testo del discorso che ha pronunciato nel corso dell’incontro:
Papa Francesco:
Grazie per il vostro lavoro. È la prima volta che sento l’esito di un “prelievo” diocesano! Grazie, avete lavorato bene. Grazie.
S.E. Mons. De Donatis (prima domanda):
Ci sono alcune domande. La prima è stata questa: Carissimo Papa Francesco, hai ascoltato da don Paolo una sintesi del lavoro che le nostre comunità hanno fatto quest’anno sulle malattie spirituali che ci affliggono. Non ci è stato sempre facile riconoscerne la radice profonda, cioè spirituale: vediamo bene i blocchi che ci impediscono di deciderci e di dedicarci, con più passione e con maggior scioltezza, all’evangelizzazione. È stato come dover riconoscere che, nonostante i nostri sforzi, anche generosi, qualcosa “era malato alla radice”, minando l’organismo ecclesiale e rendendolo in un certo senso sterile. Come puoi immaginare, la tentazione della frustrazione, dell’amarezza, può farsi strada, e con lei una sensazione di impotenza. Sarebbe come entrare in un meccanismo che ci farebbe di nuovo girare a vuoto, e noi non abbiamo voglia di girare a vuoto. Vorremmo ripartire e ripartire bene, facendo in modo che queste malattie inneschino un processo di guarigione… Come si fa? C’è una terapia di base che tu potresti prescrivere per tutte le nostre malattie? Come il Signore le vuole guarire? E come vuole farci crescere attraverso l’esperienza che di esse abbiamo fatto?
Papa Francesco:
Alcune parole mi hanno colpito: per esempio, “radice”. Parlando di peccati, di difetti, di malattie, sempre c’è bisogno di arrivare alla radice. Perché diversamente le malattie rimangono e ritornano. Poi, quell’atteggiamento di frustrazione, di amarezza quando – è un’esperienza quotidiana – quando io vado a confessarmi, dico le stesse cose di sempre. Se tu, quando vai a confessarti, ti accorgi che c’è il ritornello di sempre, fermati e domandati che cosa succede. Perché altrimenti c’è quell’amarezza: questo non cambia… No. Lì hai bisogno di un aiuto. L’amarezza, la frustrazione è quando tu senti che non puoi cambiare, che non puoi guarire. Fermati, pensa. L’impotenza. Il Signore vuol farci crescere con l’esperienza della guarigione: non a caso nei Vangeli il Signore, senza essere un guaritore o uno stregone, guariva, guariva, guariva… È un segno della redenzione, un segno di quello che è venuto a fare: guarire le nostre radici. Lui ci ha guarito pienamente: la grazia guarisce in profondità. Non anestetizza, guarisce. E questa esperienza di guarigione che abbiamo visto nel Signore – nella sua vita guariva a fondo e con il dialogo spirituale – dobbiamo farla noi come Chiesa diocesana. Ma come farla? Ognuno deve trovare la strada. Come farla? Da solo, tu non puoi: da solo nessuno può guarire. Nessuno. Ci vuole qualcuno che mi aiuti.
Il primo è il Signore. Individuata la malattia, individuato il peccato, individuato il difetto, individuata la radice – quella radice amara della quale parla la Lettera agli Ebrei – individuata quella radice amara, primo, parlare con il Signore: “Guarda questo che ho, non riesco a fermarmi, cado sempre nella stessa cosa…”.
E poi, cercare qualcuno che mi aiuti, andare in “ambulatorio”, cioè andare da qualche anima buona che abbia questo carisma di aiuto. E non necessariamente dev’essere un prete: il carisma di accompagnamento spirituale è un carisma laicale che ci viene dato con il battesimo – anche i preti lo hanno, perché sono battezzati, grazie a Dio! –;un carisma può essere la comunità, può essere una persona anziana, una persona giovane, il coniuge… Insomma, farsi aiutare da un altro e parlare: “Guarda questo…”. Parlare con Gesù, parlare con un altro, parlare con la Chiesa. E credo che questo sia il primo passo.
Poi, aiuterà leggere qualcosa su quell’argomento. Ci sono cose belle, ci sono anche dei metodi per risolvere alcune di queste malattie. Due anni fa ho regalato ai Cardinali, per gli auguri di Natale, una cosa molto bella che è stata scritta da padre Acquaviva: Accorgimenti per curare le malattie dell’anima. È stato pubblicato da mons. Libanori e padre Forlai… Anche questo aiuta, per vedere come sono le malattie: “Ah, io ho questa!”, e come guarirle; o leggere qualcosa che ti consigliano di leggere. Ma sempre guardare avanti. Posso fare tutto questo: pregare, parlare con un altro, leggere… Ma l’unico che può guarire è il Signore. L’unico.
S.E. Mons. De Donatis (seconda domanda):
Ce n’è una seconda. Ci rendiamo conto che la malattia dell’individualismo ha prodotto anche nel nostro corpo ecclesiale una certa frantumazione, fatta di altrettanti isolamenti. La molteplicità e diversità delle esperienze di fede e di comunità da cui proveniamo, pur essendo in se stesse validissime (ci hanno generato, ci hanno permesso di stare qui stasera!), sono state vissute in maniera isolata, autoreferenziale, cioè non ben armonizzate nell’unica Chiesa, che è questa Chiesa diocesana. Poiché a Roma c’è il centro internazionale di “tutto” (movimenti, associazioni, cammini, istituti religiosi, centri universitari, ecc.), succede che ognuno si prenda ciò che gli piace di più o ciò che gli è più utile per il suo cammino spirituale e di fede, isolandosi o prendendo le distanze da tutto il resto. Con la stessa logica del supermercato, che produce un fedele-consumatore: solo che qui il prodotto che si offre è “il benessere spirituale”, sganciato dalla comunione con gli altri. Così si perde l’appartenenza al Popolo di Dio, non si capisce più perché la Chiesa è necessaria, perché gli altri ci sono necessari: in particolare questa Chiesa che è la diocesi. Come recuperare questa comunione con la diocesi? Come riscoprire il gusto dell’essere il popolo santo di Dio? Come possiamo andare oltre le appartenenze esclusive e rassicuranti del nostro gruppo?
Papa Francesco:
Questa è una domanda molto importante qui a Roma, dove ci sono tante strade… Tu a Roma trovi di tutto: qui si impara la “tuttologia”. Tu puoi fare tutto, qui, tutto e in abbondanza. Questo fa male allo stomaco e non ti lascia digerire le cose di cui hai bisogno. Questo individualismo che provoca frantumazione, la coscienza isolata, autoreferenziale, è sempre un “guardarsi l’ombelico”. Quelle persone che guardano sé stesse e cercano – questo è un pericolo grande – il menu personale: non quello di cui ho bisogno, quello che mi indica il medico, no, ma quello che mi piace. Oppure cercano novità. Quelli che cercano le novità, ansia di novità. Parlo di cristiani bravi, che vogliono darsi da fare ma sentono di quello, di quello, di quello… le novità… Uno che cerca le novità ha bisogno di qualche voce realista che dica: “Ma guarda, fermati. Fermati e va’ all’essenziale. Cerca quello che può guarirti, non le novità, una dietro l’altra”.
Ho due aneddoti che possono servire, ambedue sugli esercizi spirituali. Uno è il fatto che è venuta la moda, alcuni anni fa, a Buenos Aires, di fare la prima settimana degli esercizi [ignaziani], quella della conoscenza di sé, dei peccati, del pentimento, con tecniche psicologiche un po’ orientalistiche, strane…; e c’era gente che andava verso quelle novità, e non servivano a niente, perché trovavano le novità ma loro non cambiavano. Cerchi solo le novità.
E l’altro aneddoto sugli esercizi ci dice che queste novità si “sciolgono” soltanto con una buona dose di realismo, che con questa ansia bisogna che qualcuno mi dia uno schiaffo per svegliarmi. C’erano degli esercizi per religiose e il prete che dava gli esercizi era una persona che aveva una dottrina speciale sulla spiritualità, anche sulla consonanza con il mondo, col cosmo, insomma, cose del genere… E c’era una suora – sui 60 anni – che da 40 anni era in ospedale, una spagnola, di quelle brave. Quello era il periodo che aveva per gli esercizi e si era iscritta lì. Ma questo sacerdote aveva un metodo orientalistico per fare gli esercizi; per esempio, consigliava alle suore: “Al mattino, la prima cosa che dovete fare è un bagno, una doccia vitale”, tutte cose un po’ strane… Ha fatto sedere le suore in cerchio, una ventina di suore, e ha cominciato a dire: “rilassati, lasciati andare…”. Quella suora spagnola mandava giù… Ma dopo la seconda meditazione si è alzata e ha detto: “Padre, io sono venuta a fare gli esercizi, non la ginnastica. Grazie tante e arrivederci”, e se n’è andata. A volte, ci vuole gente che ci dia uno schiaffo, quando stiamo cercando le novità: cercare la panna senza la torta. Dobbiamo cercare quello che ci rende Chiesa, il nutrimento che ci fa crescere come Chiesa. E il pericolo in questo caso è uno dei due che ho segnalato nella Esortazione sulla santità: lo gnosticismo, che ti fa ricercare cose ma senza incarnazione, senza entrare nella vita tua incarnata. E così diventi più individualista, più isolato, con il tuo gnosticismo. E la diocesi, quando c’è gente così, o quando la maggioranza è così, o un bel numero che ha influenza è così, ricade in quella descrizione di una Chiesa gnostica: “Un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo”. E quando c’è la Chiesa senza popolo, ci sono questi servizi liturgici forse molto squisiti ma senza forza: non c’è il popolo di Dio.
Mi diceva un vescovo un mese fa, più o meno, parlando del popolo di Dio, che la pietà del popolo di Dio, incarnata così, è il “sistema immunitario” della Chiesa. Parlando delle malattie, il sistema immunitario è quella pietà popolare che sempre si attua in comunità. È vero, come dice il Beato Paolo VI al n° 48 della Evangelii nuntiandi, che ha i suoi difetti, ma ha tante virtù. I difetti devono guarire, ma le virtù devono crescere. Sempre valorizzare il santo popolo di Dio, che nella sua totalità è infallibile in credendo (cfr Lumen gentium, 12). Non dimenticate questo, questo sistema immunitario. “Come possiamo andare oltre le appartenenze esclusive e rassicuranti del nostro gruppo?”. Bisogna sempre esaminare questo aspetto: “Io vado con il popolo di Dio? Migliorando, certo, ma sempre voglio un popolo con la Chiesa, una Chiesa con Gesù Cristo incarnato, un Gesù Cristo con Dio?”. Cioè il cammino inverso. È l’unico modo: la comunità ci guarisce, la spiritualità comunitaria ci guarisce.
S.E. Mons. De Donatis (terza domanda):
La terza: È diffusa tra noi una certa stanchezza, un calo di tensione e di passione che ha preso tutti: preti, religiosi, laici. La vita di una parrocchia postconciliare a Roma (in genere parrocchia grande, in una grande città) è molto impegnativa. Sembra che il tempo non sia mai sufficiente a fare tutto quello che c’è da fare, a raggiungere tutti gli obiettivi, che non ce ne sia mai abbastanza. La vita ordinaria delle parrocchie “si mangia” tutto il nostro tempo, per cui non ne rimane molto per coltivare una vita spirituale, pensare, progettare, realizzare cose nuove. Non ti nascondiamo, Papa Francesco, che talvolta, quando viene lanciata in diocesi una nuova iniziativa, è accolta più con sospetto, o addirittura fastidio, che con entusiasmo. Sentiamo il bisogno che tu ci aiuti ad individuare alcune prospettive di cammino in cui concentrare i nostri sforzi nei prossimi anni a Roma. Non tante: due o tre. La nostra magna charta è Evangelii gaudium, certo, ma sentiamo il desiderio che tu ci aiuti a tradurla in “romanesco”. Con un orizzonte e un indirizzo più chiari e condivisi, il tempo acquista un ritmo diverso, meno affannoso, ci fa vivere partecipando fino in fondo di quel che viviamo.
Papa Francesco:
È vero, questo: alcune volte può succedere che il lavoro apostolico di una parrocchia si pensi come una somma di iniziative, di lavori… E lì è difficile portare avanti una cosa del genere. Questo e questo e questo…: sommare senza armonizzare. La domanda, in questa novena dello Spirito Santo, è sull’armonia: come va l’armonia parrocchiale? come va l’armonia diocesana? come va l’armonia familiare? Lo Spirito Santo è l’armonia – lo dice San Basilio nel suo trattato sullo Spirito Santo. Lo Spirito è quello che fa lo scompiglio e quello che fa l’armonia! Perché per fare scompiglio è proprio un campione, basta leggere il Libro degli Atti degli Apostoli. Tutto quello scompiglio che ha fatto all’inizio della Chiesa apostolica… Ma fa anche l’armonia. E nella nostra vita è lo stesso: nella vita parrocchiale fa lo scompiglio che sempre va insieme con l’armonia, quando lo fa Lui. E quando lo scompiglio, cioè la quantità di cose che si fanno, sono dallo Spirito, diventa armonico, sempre, e questo non stanca, questo non esaurisce.
Il discernimento va in quella direzione: l’armonia dello Spirito. L’armonia dello Spirito è una delle cose che dobbiamo cercare sempre, ma sempre con quella varietà. Lui è capace di unire tante cose diverse, che Lui stesso ha creato. Questo è proprio il punto per risolvere questa difficoltà: lo Spirito Santo, come fa l’armonia in me, nella mia diocesi? Interrogarsi sull’armonia. Che non è lo stesso di “ordine”, no. L’ordine può essere statico; l’armonia è qualcosa di dinamico, quella dello Spirito: è sempre in cammino. “Ma come posso fare?”.
Dirò tre punti concreti che possono aiutare a trovare questa armonia. Primo, la Persona del Signore, Cristo, il Vangelo in mano. Dobbiamo abituarci a leggere un passo del Vangelo tutti i giorni: ogni giorno un passo del Vangelo, per arrivare a conoscere meglio Cristo. Secondo, la preghiera: se tu leggi il Vangelo, subito ti viene la voglia di dire qualcosa al Signore, di pregare, fare un dialogo con Lui, breve… E terzo, le opere di misericordia. Con questi tre punti credo che questo senso di fastidio sparisce e andiamo verso l’armonia che è tanto grande. Ma sempre bisogna chiedere la grazia dell’armonia nella mia vita, nella mia comunità e nella mia diocesi.
S.E. Mons. De Donatis (quarta domanda):
Non abbiamo dimenticato le riflessioni fatte l’anno scorso sui giovani, in occasione del Convegno diocesano, né l’impegno preso a non lasciare soli, i ragazzi e le loro famiglie. Le tue parole ci hanno fatto comprendere che dovevamo “svegliarci” dal nostro sonno o dalla nostra pigrizia, come comunità cristiana, e riscoprire la nostra vocazione materna ad accompagnare i ragazzi nella vita e nel cammino di fede, facendo attenzione ai loro vissuti, al loro mondo, mettendoci in dialogo con loro e accogliendone le domande di vita… A Roma siamo ancora appena agli inizi di un ripensamento della pastorale giovanile: ci sono esperienze generose in giro, nelle parrocchie e nelle associazioni, ma ancora tanto disorientamento e incertezza nel mondo degli adulti, per cui l’impressione che si ha è che ancora non ci si sia davvero messi in gioco. Per rilanciare la nostra riflessione su questo punto, ti vorremmo chiedere: che impressioni hai ricevuto dal pre-Sinodo con i giovani, tenuto a marzo in Vaticano? Se c’è un grido che sale dal mondo giovanile oggi, qual è? A cosa in particolare dobbiamo fare attenzione?
Papa Francesco:
Del pre-Sinodo, dell’assemblea pre-sinodale dei giovani ho avuto una buona impressione. All’inizio sono stato tutta la mezza giornata con loro, il giorno di San Giuseppe, e poi loro hanno continuato a lavorare. Erano 315, più o meno, collegati con 30 mila. Erano giovani di tutto il mondo, cristiani, non cristiani, non credenti, ben selezionati perché fossero coraggiosi nel parlare. E hanno lavorato sul serio. Mi dicevano i segretari del Sinodo – il salesiano e il gesuita che lavorano con loro, padre Sala e padre Costa – che stavano fino alle quattro di notte e lavorare sul documento negli ultimi tre giorni, prendendo il documento sul serio. I giovani veramente volevano parlare sul serio. All’inizio mi hanno fatto delle domande – come queste, ma erano più educate! – ma dopo tra loro si sono incoraggiati a dire quello che sentivano, e è andata bene. Il documento che hanno fatto è bellissimo, è forte… Potete chiederlo alla Segreteria del Sinodo perché è interessante. Questa è l’impressione che ho ricevuto.
Qual è il grido dei giovani? Il grido dei giovani non è sempre cosciente. Io lo collego con uno dei problemi più gravi, che è il problema della droga. Il grido è: “salvateci dalla droga”. Ma non soltanto dalla droga materiale, anche dalla droga alienante, dell’alienazione culturale. Loro sono proprio una preda facile per l’alienazione culturale: le proposte che fanno ai giovani sono tutte alienanti, tutte alienanti. Quelle che fa la società ai giovani. Alienante dai valori, alienante dall’inserimento nella società, alienante pure dalla realtà: propongono una fantasia di vita.
A me preoccupa che loro comunichino e vivano nel mondo virtuale. Vivono così, comunicano così, non hanno i piedi per terra… Venerdì sono andato alla chiusura di un corso di Scholas Occurrentes con i giovani: erano della Colombia, dell’Argentina, del Mozambico, del Brasile, del Paraguay e altri Paesi; una cinquantina di giovani che avevano fatto qui un incontro sul tema del bullismo. Erano tutti lì ad aspettarmi; quando sono arrivato, come fanno i giovani, hanno fatto chiasso. Io mi sono avvicinato per salutarli e pochi davano la mano: la maggioranza erano con il telefonino: foto, foto, foto… Selfie. Ho visto che la loro realtà è quella: quello è il mondo reale, non il contatto umano. E questo è grave. Sono giovani “virtualizzati”. Il mondo delle comunicazioni virtuali è una cosa buona, ma quando diventa alienante ti fa dimenticare di dare la mano. Salutano con il telefonino. Quasi tutti! Erano felici di vedermi, di dirmi le cose… E la loro autenticità la esprimevano così. Ti salutavano così. Dobbiamo fare “atterrare” i giovani nel mondo reale. Toccare la realtà. Senza distruggere le cose buone che può avere il mondo virtuale, perché servono. È importante questo: la realtà, la concretezza. Per questo torno su una cosa che ho detto prima su un’altra domanda: le opere di misericordia aiutano tanto i giovani. Fare qualcosa per gli altri, perché questo li concretizza, li fa “atterrare”. Ed entrano in un rapporto sociale. Poi, quello che ho detto l’anno scorso: i giovani “sradicati”. Perché se tu vivi in un mondo virtuale, tu perdi le radici. Devono ritrovare le radici, attraverso il dialogo con i vecchi, con gli anziani, perché i genitori sono di una generazione per la quale le radici non sono molto salde. Ma si può andare al dialogo con i vecchi, con gli anziani. Non dimentichiamo quello che dice il poeta: “Tutto quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha sotto terra”: andare alle radici. Uno dei problemi, a mio giudizio, più difficili, oggi, dei giovani è questo: che sono sradicati. Devono ritrovare le radici, senza andare indietro: devono ritrovarle per andare avanti.
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Incontro con la Diocesi di Roma: "Dobbiamo fare 'atterrare' i giovani nel mondo reale"
Risposte del Santo Padre alle domande rivolte da S.E. Mons. De Donatis a nome dei presenti