Alle ore 19.00 di questa sera, il Santo Padre Francesco si è recato nella Basilica Papale di San Giovanni in Laterano per l’incontro con la Diocesi di Roma. Al suo arrivo, il Papa è stato accolto da S.E. Mons. Angelo De Donatis, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma. Erano presenti, tra gli altri, i vescovi ausiliari, i sacerdoti, i religiosi e le religiose ed i rappresentanti laici delle parrocchie, delle realtà ecclesiali, delle cappellanie e delle scuole cattoliche della città. Questo incontro ha concluso il cammino di riflessione sulle “malattie spirituali” avviato, su invito dell’Arcivescovo Vicario, dalle parrocchie e dalle prefetture all’inizio della Quaresima. Quindi, dopo il momento della preghiera d’inizio, don Paolo Asolan, Professore del Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense, ha presentato al Santo Padre la sintesi dei lavori pervenuti dalle parrocchie curata da una Commissione diocesana. Successivamente il Papa ha risposto a braccio a quattro domande che gli sono state rivolte da S.E. Mons. Angelo De Donatis a nome dei presenti e, subito dopo, ha pronunciato il Suo discorso.
Pubblichiamo di seguito la trascrizione del dialogo del Santo Padre e il testo del discorso che ha pronunciato nel corso dell’incontro:
Cari fratelli e sorelle,
il lavoro sulle malattie spirituali ha avuto due frutti. Primo, una crescita nella verità della nostra condizione di bisognosi, di infermi, emersa in tutte le parrocchie e le realtà che sono state chiamate a confrontarsi sulle malattie spirituali indicate da Mons. De Donatis. Secondo, l’esperienza che da questa adesione alla nostra verità non sono venuti solo scoraggiamento o frustrazione, ma soprattutto la consapevolezza che il Signore non ha smesso di usarci misericordia: in questo cammino Egli ci ha illuminati, ci ha sostenuti, ha avviato un percorso per certi versi inedito di comunione tra di noi, e tutto questo perché noi possiamo riprendere il nostro cammino dietro a Lui.
Siamo diventati più consapevoli di essere, per certi aspetti e per certe dinamiche emerse dalle nostre verifiche, un “non-popolo”. Questa parola “non-popolo” è una parola biblica, usata tanto dai profeti. Un nonpopolo chiamato a rifare ancora una volta alleanza con il Signore. Chiavi di lettura come queste già ci riportano, anche solo intuitivamente, a quanto vissuto dal popolo dell’antica alleanza, che per primo si lasciò guidare da Dio a diventare il suo popolo. Anche noi possiamo nuovamente lasciarci illuminare dal paradigma dell’Esodo, che racconta proprio come il Signore si sia scelto ed educato un popolo al quale unirsi, per farne lo strumento della sua presenza nel mondo. In quanto paradigma per noi, l’esperienza di Israele necessita di una coniugazione per diventare linguaggio, cioè per essere comprensibile e per trasmettere e far vivere qualcosa a noi anche oggi.
La Parola di Dio, l’opera del Signore, cerca qualcuno con cui coniugarsi, unirsi: la nostra vita. Con questa gente che siamo noi oggi, Egli agirà con la stessa potenza con la quale agì liberando il suo popolo e donandogli una nuova terra. La storia dell’Esodo parla di una schiavitù, di un’uscita, di un passaggio, di un’alleanza, di una tentazione/mormorazione e di un ingresso. Ma è un cammino di guarigione. Iniziando questa nuova tappa di un cammino ecclesiale che a Roma non inizia certo adesso ma piuttosto dura da duemila anni, è stato importante chiederci – come abbiamo fatto in questi mesi – quali siano le schiavitù – le malattie, le schiavitù che ci tolgono la libertà – che hanno finito col renderci sterili, così come il Faraone voleva Israele senza figli che a loro volta generassero.
Questo “senza figli” mi fa pensare alla capacità di fecondità della comunità ecclesiale. È una domanda che vi lascio. Dovremmo forse individuare anche chi sia oggi il Faraone: questo potere che si pretende divino e assoluto, e che vuole impedire al popolo di adorare il Signore, di appartenergli, rendendolo invece schiavo di altri poteri e di altre preoccupazioni. Sarà necessario dedicare del tempo (forse un anno?) perché, riconosciute umilmente le nostre debolezze e avendole condivise con gli altri, possiamo sentire e fare esperienza di questo fatto: c’è un dono di misericordia e di pienezza di vita per noi e per tutti quelli che abitano a Roma.
Questo dono è la volontà buona del Padre per noi: noi singoli e noi popolo. È la sua presa di iniziativa, il suo precederci nell’attestarci che in Cristo Egli ci ha amato e ci ama, che ha a cuore la nostra vita e noi non siamo creature abbandonate al loro destino e alle loro schiavitù. Che tutto è per la nostra conversione e per il nostro bene: «Del resto – come dice san Paolo –, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28).
L’analisi delle malattie ha messo in evidenza una generale e sana stanchezza delle parrocchie sia di girare a vuoto sia di aver perso la strada da percorrere. Tutti e due sono atteggiamenti brutti e che fanno male. Girare a vuoto è un po’ come stare in un labirinto; e perdere la strada è prendere strade sbagliate. Forse ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate (quelle del nostro territorio, dei nostri ambienti di vita quotidiana), mentre il Signore sempre si manifesta incarnandosi qui e ora, cioè anche e precisamente in questo tempo così difficile da interpretare, in questo contesto così complesso e apparentemente lontano da Lui.
Non ha sbagliato mettendoci qui, in questo tempo, e con queste sfide davanti. Forse per questo ci siamo trovati in una condizione di schiavitù, cioè di limitazione soffocante, di dipendenza da cose che non sono il Signore; pensando magari che questo bastasse o fosse addirittura quello che Lui ci chiedeva di fare: stare vicino alla pentola della carne, e impastare mattoni, che poi servono per costruire i depositi del Faraone, funzionali allo stesso potere che esercita la schiavitù. Ci siamo accontentati di quello che avevamo: noi stessi e le nostre “pentole”. Noi stessi: e qui c’è il grande tema della “ipertrofia dell’individuo”, così presente nelle verifiche: dell’io che non riesce a diventare persona, a vivere di relazioni, e che crede che il rapporto con gli altri non gli sia necessario; e le nostre “pentole”: cioè i nostri gruppi, le nostre piccole appartenenze, che si sono rivelate alla fine autoreferenziali, non aperte alla vita intera.
Ci siamo ripiegati su preoccupazioni di ordinaria amministrazione, di sopravvivenza. Quante volte si sente questo: “I preti sono indaffarati, devono fare i conti, devono fare questo, questo, questo…”. E la gente percepisce questo. “È un buon prete, ma perché ci lasciamo prendere in questo vortice pazzesco?”. È interessante. È un bene che questa situazione ci abbia stancato, è una grazia di Dio questa stanchezza: ci fa desiderare di uscire. E per uscire, abbiamo bisogno della chiamata di Dio e della presenza/compagnia del nostro prossimo.
Occorre ascoltare senza timore la nostra sete di Dio e il grido che sale dalla nostra gente di Roma, chiedendoci: in che senso questo grido esprime un bisogno di salvezza, cioè di Dio? Come Dio vede e ascolta quel grido? Quante situazioni, tra quelle emerse dalle vostre verifiche, esprimono in realtà proprio quel grido! L’invocazione che Dio si mostri e ci tragga fuori dall’impressione (o dall’esperienza amara, quella che fa mormorare) che la nostra vita sia inutile e come espropriata dalla frenesia delle cose da fare e da un tempo che continuamente ci sfugge tra le mani; espropriata dai rapporti solo utilitaristi/commerciali e poco gratuiti, dalla paura del futuro; espropriata anche da una fede concepita soltanto come cose da fare e non come una liberazione che ci fa nuovi a ogni passo, benedetti e felici della vita che facciamo.
Come avrete capito, vi sto invitando a intraprendere un’altra tappa del cammino della Chiesa di Roma: in un certo senso un nuovo esodo, una nuova partenza, che rinnovi la nostra identità di popolo di Dio, senza rimpianti per ciò che dovremo lasciare. Occorrerà, come dicevo, ascoltare il grido del popolo, come Mosè fu esortato a fare: sapendo così interpretare, alla luce della Parola di Dio, i fenomeni sociali e culturali nei quali siete immersi. Cioè imparando a discernere dove Lui è già presente, in forme molto ordinarie di santità e di comunione con Lui: incontrando e accompagnandovi sempre più con gente che già sta vivendo il Vangelo e l’amicizia con il Signore. Gente che magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita; che ha già fatto diventare significato della sua esistenza il Signore, e proprio dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana.
Penso adesso a Pua e Sifra, le due levatrici che obiettarono all’ordine omicida del Faraone e che così impedirono lo sterminio (cfr Es 1,8-21). Anche a Roma vi sono certamente donne e uomini che interpretano il loro lavoro di ogni giorno come un lavoro destinato a dare vita a qualcuno e non a toglierla, e lo fa senza mandati particolari da parte di nessuno ma perché “temono Dio” e lo servono. La vita del popolo di Israele deve molto a quelle due donne, come la nostra Chiesa deve molto a persone rimaste anonime ma che hanno preparato l’avvenire di Dio. E il filo della storia, il filo della santità, viene portato avanti da gente che noi non conosciamo: gli anonimi, quelli che sono nascosti e portano avanti tutto. Per far questo occorrerà che le nostre comunità diventino capaci di generare un popolo – questo è importante, non dimenticatelo: Chiesa con popolo, non Chiesa senza popolo -, capaci cioè di offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta, insomma: parte non anonima di un tutto.
Un popolo in cui si sperimenta una qualità di rapporti che è già l’inizio di una Terra Promessa, di un’opera che il Signore sta facendo per noi e con noi. Fenomeni come l’individualismo, l’isolamento, la paura di esistere, la frantumazione e il pericolo sociale…, tipici di tutte le metropoli e presenti anche a Roma, hanno già in queste nostre comunità uno strumento efficace di cambiamento. Non dobbiamo inventarci altro, noi siamo già questo strumento che può essere efficace, a patto che diventiamo soggetti di quella che altrove ho già chiamato la rivoluzione della tenerezza. E se la guida di una comunità cristiana è compito specifico del ministro ordinato, cioè del parroco, la cura pastorale è incardinata nel battesimo, fiorisce dalla fraternità e non è compito solo del parroco o dei sacerdoti, ma di tutti i battezzati.
Questa cura diffusa e moltiplicata delle relazioni potrà innervare anche a Roma una rivoluzione della tenerezza, che sarà arricchita dalle sensibilità, dagli sguardi, delle storie di molti. Tenendo questo come un primo compito pastorale, potremo essere lo strumento attraverso il quale sia sperimenteremo l’azione dello Spirito Santo tra di noi (cfr Rm 5,5), sia vedremo vite cambiare (cfr At 4,32-35). Come attraverso l’umanità di Mosè Dio intervenne per Israele, così l’umanità risanata e riconciliata dei cristiani può essere lo strumento (quasi il sacramento) di questa azione del Signore che vuole liberare il suo popolo da tutto ciò che lo fa non-popolo, con il suo carico di ingiustizia e di peccato che genera morte. Ma bisogna guardare a questo popolo e non a noi stessi, lasciarci interpellare e scomodare. Questo produrrà certamente qualcosa di nuovo, di inedito e di voluto dal Signore.
C’è un passaggio previo di riconciliazione e di consapevolezza che la Chiesa di Roma deve compiere per essere fedele a questa sua chiamata: e cioè riconciliarsi e riprendere uno sguardo veramente pastorale – attento, premuroso, benevolo, coinvolto – sia verso sé stessa e la sua storia, sia verso il popolo alla quale è mandata. Vorrei invitarvi a dedicare del tempo a questo: a far sì che già questo prossimo anno sia una sorta di preparazione dello zaino (o dei bagagli) per iniziare un itinerario di qualche anno che ci faccia raggiungere la nuova terra che la colonna di nube e di fuoco ci indicherà; vale a dire nuove condizioni di vita e di azione pastorale, più rispondenti alla missione e ai bisogni dei romani di questo nostro tempo; più creative e più liberanti anche per i presbiteri e per quanti più direttamente collaborano alla missione e all’edificazione della comunità cristiana. Per non avere più paura di quel che siamo e del dono che abbiamo, ma per farlo fruttificare.
Il Signore ci chiama perché “andiamo e portiamo frutto” (cfr Gv 15,16). Nella pianta, il frutto è quella parte prodotta e offerta per la vita di altri esseri viventi. Non abbiate paura di portare frutto, di farvi “mangiare” dalla realtà che incontrerete, anche se questo “lasciarsi mangiare” assomiglia molto a uno sparire, un morire. Alcune iniziative tradizionali forse dovranno riformarsi o forse addirittura cessare: lo potremo fare soltanto sapendo dove stiamo andando, perché e con Chi. Vi invito a leggere così anche alcune delle difficoltà e delle malattie che avete riscontrato nelle vostre comunità: come realtà che forse non sono più buone da mangiare, non possono più essere offerte per la fame di qualcuno. Il che non significa affatto che non possiamo produrre più niente, ma che dobbiamo innestare virgulti nuovi: innesti che daranno frutti nuovi.
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Incontro con la Diocesi di Roma: "Chiesa con popolo, non Chiesa senza popolo"
Discorso del Santo Padre