Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: La Quaresima di Gesù e la nostra Quaresima

Rito Romano – I Domenica di Quaresima – Anno B – 18 febbraio 2018

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 Rito Romano – I Domenica di Quaresima – Anno B – 18 febbraio 2018
Gn 9,8-15; Sal 24; 1Pt 3,18-22; Mc 1,12-15
Rito Ambrosiano
Is 57,15-58,4a; Sal 50; 2Cor 4,16b-5,9; Mt 4,1-11
Domenica all’inizio della Quaresima
 
1) Convertirsi alla verità dell’amore.
La prima Domenica di Quaresima – Anno B – ci offre il racconto della tentazione di Gesù nel deserto secondo il Vangelo di San Marco che, rispetto a quello di San Matteo e di San Luca, è caratterizzato da una grande brevità. Con lo stile sobrio e conciso di san Marco, il Vangelo ci introduce nel clima di questo tempo liturgico: “Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12) e servito dagli Angeli (cfr. Mc 1,13)
In questi due versetti troviamo sintetizzati i due aspetti della concezione biblica del deserto. Da una parte, il deserto è visto come il luogo della tentazione quando si dice che lo Spirito sospinse Gesù nel deserto, dove rimase quaranta giorni (come i quarant’anni del popolo nel deserto) tentato da Satana. D’altra parte, il riferimento al deserto come al luogo privilegiato di esperienza dell’Alleanza, cioè dell’amore del Signore, i cui angeli servono Cristo. Senza dubbio ricordato le parole del profeta Osea: “Ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (2, 16).
Nel giardino di pietre che è il deserto, nuovo giardino dell’Eden reso luogo di morte dal peccato, Gesù vince il vecchio, spento sguardo sulle cose che seducono e ci aiuta a guardare alla vita con occhi nuovi, santi e pieni di amore.
Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù entra nel deserto[1] condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.
In quel luogo solitario, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
A questi uomini Cristo dice la buona notizia: Dio è vicino, “convertitevi e credete nel Vangelo”. Credete nell’amore.
All’inizio di Quaresima, queste parole “convertitevi e credete nel Vangelo” sono rivolte a ciascuno di noi. Non si tratta di  una ingiunzione che nasce dall’arbitrio, ma una indicazione che sgorga dall’amore.
Gesù viene per annunciare la legge della libertà, non per denunciare secondo una legge di schiavitù. Il suo annuncio è un “sì” che crea un’alleanza nuova di vita, e non un “no” che punisce con la morta.  Se al suo sì rispondiamo con il nostro sì, vivremo una vita buona, bella e felice come la sua.
Per poter dire questo “sì”, dobbiamo convertirci e credere a Vangelo. Questo sì ci fa mette con Cristo sulla strada della carità. Non dimentichiamo però che per imboccare e vivere la via dell’amore, è condizione indispensabile una unica cosa, convertirsi, cioè abbandonare la volontà propria, attraverso l’umiltà. San Bernardo di Chiaravalle lo scoprì leggendo il Vangelo, là dove Gesù raccomanda ai discepoli: “ In verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18,3). E che altro significa divenire bambini – si domanda San Bernardo – se non “divenire umili”? (Sulla quaresima II,1). Convertirsi si riduce, quindi, ad apprendere la difficile arte dell’umiltà.
La conversione è il “sì umile” e totale di chi consegna la sua esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo  come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva. Proprio questo è il senso delle prime parole con cui, secondo l’evangelista Marco, Gesù apre la predicazione del “Vangelo di Dio”: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15).
 
2) Penitenza e conversione[2].
Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con un ritorno a casa come ha fatto il figlio prodigo.
Convertirsi è volgere mente e cuore a Dio che in Cristo si è fatto vicino.
Convertirsi è accogliere il dono della vicinanza di Dio. Secondo me la parola più forte e carica di significato che Gesù pronuncia oggi nel Vangelo è questa: il Regno di Dio è vicino. Che significa: la signoria di Dio è presente nella persona e nell’opera di Gesù Cristo ed è vicina perché è iniziata e cresce in mezzo agli uomini con la presenza di Gesù. La conversione è avvicinarsi a questa presenza, è farsi raggiungere dallo Spirito perché ci si sente lontani, orfani di Dio.
In questi quaranta giorni la Chiesa ci chiede di vivere con intensa preghiera, con sincera penitenza nella contrizione e con la generosa elemosina che fa sì che la compassione non verso i poveri non sia solo un’emozione ma una condivisione di beni.
Le opere di quaresima che la Chiesa ci chiede sono tre: preghiera, penitenza ed elemosina. Oggi, mi soffermerò sulla penitenza, per aiutare ad arrivare a celebrare il grande mistero della Pasqua del suo Figlio, purificati e completamente rinnovati nella mente e nello spirito.
La penitenza ha due elementi essenziali: la contrizione del cuore e la mortificazione del corpo. Non va dimenticato che se è il cuore dell’uomo a volere il male, spesso è il corpo l’ha aiutato a commetterlo.
Ma il principio della vera penitenza sta nel cuore: lo impariamo dal Vangelo negli esempi del figlio prodigo, della peccatrice che lava i piedi a Cristo con le sue lacrime, di Zaccheo il pubblicano e di san Pietro, che offrì a Cristo il suo dolore e Cristo lo confermò nel suo amore.
Durante la Quaresima, il cristiano deve esercitarsi nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti propri di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni che essa ispira.
Il Salvatore non si accontenta di gemere e di piangere sui nostri peccati. Li espia con la sofferenza del proprio corpo. La Chiesa, che la sua sicura interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza il mercoledì delle ceneri e nei venerdì di quaresima  e del digiuno, il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo. Il diavolo tenta a partire dalla sensualità e dalla gola, per questo che durante la Quaresima ci è chiesto di praticare non solo la preghiera, ma l’astinenza e il digiuno.
A questo punto è legittimo chiedersi quale penitenza fare, quale sacrificio offrire al Signore per vivere bene questo periodo quaresimale, in particolare, e quello della vita di ogni giorno in generale per espiare i propri peccati e camminare con Cristo.
La risposta, che ci viene dalla Bibbia e dalla Tradizione, è questa: “Fare in tutto, sempre e in modo perfetto la Volontà di Dio”. Chi offre un digiuno offre al Signore una parte di sé. Chi offre al Signore l’adesione della propria alla sua volontà, invece, gli offre tutto se stesso. E in ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate. Queste donne donandosi anima e corpo a Cristo, compiono un atto di  di amore perfetto. Ciascuno di loro dice “Signore io amo ciò che Tu ami e odio ciò che tu odi. Amo la virtù, odio il peccato”. Ma loro mostrano che ciò non basta. Loro amano come Dio vuole, con un amore autentico, gioioso e grato.
In effetti, se l’amore anima questa autenticità, il Signore  regna nella persona con la sua gioia (cfr. Papa Francesco). Inoltre la vita della consacrata esprime nella concretezza l’importanza di dare tutto a Dio con gioia e semplicità. Infine, testimoniano che il donarsi a Dio con gratitudine  è segno di maturità perché sono riconoscenti di fare esperienza che Dio le sostiene con la luce del Suo volto. Infine mostrano che un cuore grato è un cuore fedele.
 
Lettura Patristica
San Girolamo
Comment. in Marc., 1-2
 
Gesù e lo Spirito Santo
“E subito lo Spirito lo spinse nel deserto” (Mc 1,12). È lo Spirito che era disceso sotto forma di colomba. «Vide – dice Marco – i cieli aperti e lo Spirito come colomba discendere e fermarsi su di lui». Considerate quanto dice: fermarsi, cioè restare con lui, non sostare e poi andarsene. Giovanni stesso dice in un altro Vangelo: “E chi mi ha mandato mi ha detto: – Colui sul quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito Santo” (Jn 1,33). Lo Spirito Santo discese su Cristo e si fermò su di lui: quando invece discende sugli uomini non sempre si ferma. Infatti nel libro di Ezechiele, che raffigura in immagine il Salvatore (nessun altro profeta, e mi riferisco ai maggiori, viene chiamato «Figlio dell’uomo», come Ezechiele), si legge: “La parola del Signore fu diretta a Ezechiele profeta” (Ez 1,3). Qualcuno dirà: – Perché tanto spesso citi il profeta? Perché lo Spirito Santo discendeva sul profeta, ma di nuovo se ne allontanava. Quando si dice che «la parola del Signore fu diretta» si intende chiaramente che lo Spirito Santo di nuovo tornava dopo essersene andato. Quando siamo colti dall’ira, quando offendiamo qualcuno, quando siamo presi da tristezza mortale, quando i nostri pensieri sono prigionieri della carne, crediamo forse che lo Spirito Santo rimanga in noi? Possiamo forse sperare che lo Spirito Santo sia in noi quando odiamo il nostro fratello, o quando meditiamo qualche ingiustizia? Dobbiamo invece sapere che, quando ci applichiamo ai buoni pensieri o alle buone opere, allora abita in noi lo Spirito Santo: ma quando al contrario siamo colti da un pensiero malvagio, è segno che lo Spirito Santo ci ha abbandonato. Per questa ragione, a proposito del Salvatore sta scritto: «Colui sul quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito Santo, quegli è…».
«E subito lo Spirito lo spinse nel deserto». È lo Spirito Santo che spinge nel deserto i monaci che vivono con i loro parenti, se tale Spirito è sceso e si è fermato su di loro. È lo Spirito Santo che li spinge a uscire dalla casa e li conduce nella solitudine. Lo Spirito Santo non abita volentieri laddove c’è folla e ci sono discussioni e risse: lo Spirito Santo ha la sua dimora nella solitudine. Per questo il nostro Signore e Salvatore, quando voleva pregare, “solo” – dice Luca -, “si ritirava sul monte e ivi pregava tutta la notte” (Lc 6,12). Di giorno stava con i discepoli, di notte dedicava la sua preghiera al Padre per noi. Perché ho detto tutto questo? Perché parecchi fratelli sono soliti dire: – Se resterò nel convento, non potrò pregare da solo. Forse che nostro Signore mandava via i discepoli? No, egli stava sempre con i discepoli, ma quando voleva pregare più intensamente si ritirava da solo. Anche noi, se vogliamo pregare più intensamente di quanto facciamo assieme ad altri, abbiamo a nostra disposizione la cella, abbiamo i campi, abbiamo il deserto. Possiamo fruire della compagnia e delle virtù dei fratelli, ma possiamo anche godere della solitudine…
“Dopo la cattura di Giovanni ritornò Gesù in Galilea” (Mc 1,14). Il racconto è noto, e appare chiaro agli ascoltatori, anche senza la nostra spiegazione. Preghiamo però colui che ha la chiave di David, colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre (Ap 3,7), affinché ci apra la recondita via del Vangelo, ed anche noi si possa dire insieme a David: “Mostrati ai miei occhi, e io contemplerò le bellezze della tua legge” (Ps 118,18). Alle folle il Signore parlava in parabole, e parlava esteriormente. Non parlava nell’intimo, cioè nello spirito; parlava con il linguaggio esteriore, secondo la lettera. Preghiamo noi il Signore, affinché ci introduca nei suoi misteri, ci faccia entrare nel suo segreto abitacolo, e possiamo anche noi dire, insieme con la sposa del Cantico dei Cantici: “Il re mi ha introdotto nel suo ricettacolo” (Ct 1,3). L’apostolo dice che un velo fu posto sugli occhi di Mosè (2Co 3,13). Io dico che non soltanto nella legge, ma anche nel Vangelo c’è un velo sugli occhi di chi non sa. Il giudeo lo ascoltò, ma non lo capì: per lui c’era un velo sul Vangelo. I gentili ascoltano, ascoltano gli eretici, ma anche per loro c’è il velo. Abbandoniamo la lettera insieme ai giudei, e seguiamo lo spirito con Gesù: e non perché dobbiamo condannare la lettera del Vangelo (tutto ciò che fu scritto s’è avverato), ma per poter salire gradualmente verso le cose più elevate.
«Dopo la cattura di Giovanni, ritornò Gesù in Galilea». Domenica scorsa dicemmo che Giovanni è la legge, mentre Gesù è il Vangelo. Giovanni infatti dice: “Viene dopo di me uno che è più forte di me, e io non sono degno, abbassandomi, di sciogliergli la correggia dei calzari”. E altrove: “Egli deve crescere, io scemare” (Jn 3,30). Il paragone tra Giovanni e Gesù, è il paragone tra la legge e il Vangelo. Dice ancora Giovanni: “Io battezzo con acqua” (ecco la legge), mentre “egli vi battezzerà nello Spirito Santo” (Mc 1,8): questo è il Vangelo. Dunque Gesù torna, perché Giovanni è stato chiuso in carcere. La legge è rinchiusa, non ha più la passata libertà: ma dalla legge noi passiamo al Vangelo. State attenti a quanto dice Marco: «Dopo la cattura di Giovanni ritornò Gesù in Galilea». Non andò in Giudea né a Gerusalemme, ma nella Galilea dei gentili. Gesù torna, insomma, in Galilea: Galilea nella nostra lingua traduce il greco Katakyliste. Perché prima dell’avvento del Salvatore non vi era in quella regione niente di elevato, ma, anzi, ogni cosa precipitava in basso: dilagava la lussuria, l’abiezione, l’impudicizia e gli uomini erano preda dei vizi e dei piaceri bestiali.
“Predicando la buona novella del regno di Dio” (Mc 1,14). Per quanto io mi ricordo, non ho mai sentito parlare del regno dei cieli nella legge, nei profeti, nei salmi, ma soltanto nel Vangelo. È infatti dopo l’avvento di colui che ha detto: “E il regno di Dio è tra voi” (Lc 17,21), che il regno di Dio è aperto per noi. Gesù venne dunque predicando la buona novella del regno di Dio. “Dai giorni di Giovanni Battista il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti se ne fanno padroni” (Mt 11,12): prima dell’avvento del Salvatore e prima della luce del Vangelo, prima che Cristo aprisse al ladrone la porta del paradiso, tutte le anime dei santi erano condotte all’inferno. Dice Giacobbe: “Piangendo e gemendo discenderò all’inferno” (Gn 37,35). Chi non va all’inferno, se Abramo è all’inferno? (Lc 16,22). Nella legge, Abramo è condotto all’inferno: nel Vangelo, il ladrone va in paradiso. Noi non disprezziamo Abramo, nel cui seno tutti desidereremmo riposare: ma ad Abramo preferiamo Cristo, alla legge preferiamo il Vangelo. Leggiamo che, dopo la risurrezione di Cristo, molti santi apparvero nella città santa. Il nostro Signore e Salvatore ha predicato in terra e ha predicato all’inferno: e quando è morto, è disceso all’inferno per liberare le anime che laggiù erano prigioniere.
“Predicando la buona novella del regno di Dio e dicendo: È compiuto” il tempo della legge, viene il principio del Vangelo, “si avvicina il regno di Dio” (Mc 1,14-15). Non disse: è già venuto il regno di Dio; ma disse che il regno si avvicinava. E cioè: Prima che io soffra la passione, prima che io versi il mio sangue, non si aprirà il regno di Dio; per questo, esso ora si avvicina, ma non è qui perché ancora non ho sofferto la passione.
“Pentitevi e credete alla buona novella” (Mc 1,15): non credete più alla legge, ma al Vangelo, o, meglio, credete al Vangelo per mezzo della legge, così come sta scritto: “Dalla fede alla fede” (Rm 1,17). La fede nella legge rafforza la fede nel Vangelo.
[1] In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio. Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
[2] Il termine greco che San Marco mette sulla bocca di Cristo per invitare alla conversione, è metanoia (letteralmente “cambiamento di mentalità”) non indica un semplice cambio di opinione, ma un mutamento radicale della vita, imposto dalla presenza del regno di Dio, e la richiesta più impegnativa è quella della fede.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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