Pubblichiamo di seguito il testo integrale della conferenza stampa durante il volo di ritorno dal Bangladesh:
Ieri sera, durante il volo che da Dacca a Roma lo riportava a Roma, al termine del Viaggio Apostolico in Myanmar e in Bangladesh, il Santo Padre Francesco ha incontrato i giornalisti a bordo dell’aereo in una conferenza stampa, la cui trascrizione riportiamo di seguito:
Greg Burke: Grazie, Santo Padre, innanzitutto grazie. Lei ha scelto due Paesi interessanti da visitare, due Paesi molto diversi ma con qualcosa in comune, che è una Chiesa piccola, in ciascuno di questi Paesi, ma attiva, piena di gioia, piena di giovani e piena di uno spirito di servizio a tutta la società. Noi certamente abbiamo visto tanto, abbiamo imparato tanto, ma ci interessa anche [sapere] cosa Lei ha visto e cosa ha imparato Lei.
Papa Francesco: Buonasera, se pensiamo qui, o buon pomeriggio, se pensiamo a Roma. Grazie tante per il vostro lavoro. Come ha detto Greg, sono due Paesi molto interessanti con culture molto tradizionali, profonde, ricche. Per questo penso che il vostro lavoro sia stato molto intenso. Grazie tante.
Sagrario Ruiz de Apodaca (Radio Nacional de España): Buona sera, Santo Padre. Grazie. Io faccio la domanda in spagnolo, con il permesso dei miei colleghi italiani, perché non mi fido ancora del mio italiano, ma se Lei vuole rispondere in italiano sarebbe perfetto per tutti. La crisis de los rohingya ha centrado gran parte de este viaje a Asia. Ayer les nombró por su nombre finalmente, en Bangladés. ¿Se ha quedado con las ganas de haber hecho lo mismo en Myanmar, de haberles nombrado con esta palabra, rohingya? ¿Y qué sintió ayer cuando les pidió perdón?
Papa Francesco: No fue la primera vez ayer. Varias veces en público desde la plaza de San Pedro, en Ángelus o en audiencias los he nombrado…
Sagrario Ruiz de Apodaca: Ma in questo viaggio…
Papa Francesco: Sí, pero quiero subrayar que ya se sabía lo que pensaba y lo que decía. Pero su pregunta es muy interesante porque me lleva… [in italiano] La sua domanda è interessante perché mi porta a riflettere su come io cerco di comunicare. Per me, la cosa più importante è che il messaggio arrivi, e per questo cercare di dire le cose passo dopo passo e ascoltare le risposte, affinché arrivi il messaggio. Per esempio, un esempio dalla vita quotidiana: un ragazzo, una ragazza nella crisi dell’adolescenza può dire quello che pensa, sbattendo la porta in faccia all’altro e il messaggio non arriva, si chiude. A me interessa che questo messaggio arrivi. Per questo, ho visto che se nel discorso ufficiale [in Myanmar] avessi detto quella parola, avrei sbattuto la porta in faccia. Ma ho descritto le situazioni, i diritti di cittadinanza, «nessuno escluso», per permettermi nei colloqui privati di andare oltre. Io sono rimasto molto, molto soddisfatto dei colloqui che ho potuto avere, perché è vero, non ho avuto – diciamo così – il piacere di sbattere la porta in faccia, pubblicamente, una denuncia, no, ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato. E a tal punto è arrivato, che è continuato e continuato ed è finito ieri con quello. E questo è molto importante, nella comunicazione: la preoccupazione che il messaggio arrivi. Tante volte, le denunce, anche nei media – non voglio offendere –, con qualche dose di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta e il messaggio non arriva. E voi, che siete specialisti nel fare arrivare messaggi, capite bene questo. Lei mi chiede cosa ho sentito ieri. Questo non era programmato, così. Io sapevo che avrei incontrato i rohingya. Non sapevo né dove né come, ma questo era condizione del viaggio, per me, e si preparavano i modi. Dopo tante gestioni, anche con il governo, con la Caritas, il governo ha permesso il viaggio di questi che sono venuti ieri. Perché è avvenuto tramite il governo, che li protegge e dà loro ospitalità, e questo è grande: quello che fa il Bangladesh per loro è grande, è un esempio di accoglienza. Un Paese piccolo, povero, che ha ricevuto 700 mila profughi… Penso a Paesi che chiudono le porte… Dobbiamo essere grati per l’esempio che ci hanno dato. Il governo deve muoversi per i rapporti internazionali con il Myanmar con permessi, dialogo… Perché sono in campi per rifugiati, una condizione speciale. Ma alla fine sono venuti. Erano spaventati, non sapevano… Qualcuno aveva detto loro: “Voi salutate il Papa, non dite nulla” – qualcuno che non era del governo del Bangladesh – gente che si occupava dei contatti… A un certo punto, dopo il dialogo interreligioso, la preghiera interreligiosa, questo ha preparato il cuore di tutti noi, eravamo religiosamente molto aperti. Io, almeno, mi sentivo così. Ed è arrivato il momento che loro venissero per salutarmi. In fila indiana – quello non mi è piaciuto, uno dopo l’altro –; ma subito volevano cacciarli via dal palco. E io lì mi sono arrabbiato e ho sgridato un po’ – sono peccatore – e ho detto tante volte la parola “rispetto”, rispetto. Ho fermato la cosa, e loro sono rimasti lì. Poi, dopo averli ascoltati a uno a uno con l’interprete che parlava la loro lingua, io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. Credo due volte, non ricordo. Ma la sua domanda è “cosa ho sentito”: in quel momento, io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano, pure. E poi, ho pensato che eravamo in un incontro interreligioso, mentre i leader delle altre tradizioni religiose erano lontani. [Allora ho detto:] “No, venite anche voi: questi sono i rohingya di tutti noi”. E loro hanno salutato. Non sapevo cosa dire di più perché li guardavo, salutavo… E ho pensato: “Tutti noi abbiamo parlato, i leader religiosi. Ma uno di voi, che faccia una preghiera, uno del vostro gruppo…”. E credo che fosse un imam, un “chierico” della loro religione, che ha fatto quella preghiera, e anche loro hanno pregato lì, con noi. E, visto tutto il trascorso, tutto il cammino, io ho sentito che il messaggio era arrivato. Non so se ho soddisfatto la sua domanda. Una parte era programmata ma la gran parte è uscita spontaneamente. Poi, oggi c’è stato – mi hanno detto – un programma fatto da uno di voi – non so se è qui o non è qui – il TG1: è un programma lungo, lungo… chi l’ha fatto, Lei lo sa?
Greg Burke: E’ ancora in Bangladesh, TG1.
Papa Francesco: E che poi è stato ripetuto nel TG4… Io non l’ho visto ma alcuni che sono qui l’hanno visto. Una riflessione: il messaggio è arrivato non solo qui. Voi avete visto oggi le copertine dei giornali: tutti hanno recepito il messaggio. E io non ho sentito alcuna critica. Forse ce ne saranno, ma io non ne ho sentite.
George Abraham Kallivayalil (Deepika Daily): Santo Padre, spero che il suo viaggio in Asia, che ha toccato due Paesi, sia stato un grande successo. Noi sappiamo che in questa stessa occasione Lei avrebbe voluto andare in India. Quale esattamente è stata la ragione per cui in questo viaggio l’ipotesi dell’India è stata fatta cadere? Milioni di persone in India, compresi i nostri fedeli, ancora si augurano e sperano che il Santo Padre visiti l’India l’anno prossimo: possiamo aspettarLa in India nel 2018?
Papa Francesco: Sì, il primo piano era di andare in India e in Bangladesh; ma poi le procedure sono andate per le lunghe, il tempo premeva e ho scelto questi due Paesi. Il Bangladesh è rimasto, ma con il Myanmar. E’ stato provvidenziale, perché per visitare l’India ci vuole un solo viaggio: devi andare al sud, al centro, all’est, all’ovest, al nord…, per le diverse culture dell’India. Spero di poterlo fare nel 2018, se vivo! Ma l’idea era l’India e il Bangladesh. Poi il tempo ci ha costretto a fare questa scelta. Grazie.
Etienne Loraillère (Kto, televisione cattolica francese): Santità, c’è una domanda del gruppo di giornalisti della Francia. Alcuni oppongono il dialogo interreligioso e l’evangelizzazione. Durante questo viaggio, Lei ha parlato del dialogo per costruire la pace. Ma qual è la priorità: evangelizzare o dialogare per la pace? Perché evangelizzare significa suscitare conversioni che provocano tensioni e a volte conflitti tra i credenti; dunque, qual è la Sua priorità: evangelizzare o dialogare?
Papa Francesco: Grazie. Prima distinzione: evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione, cioè per testimonianza. Questo lo ha detto Papa Benedetto XVI. Com’è l’evangelizzazione? E’ vivere il Vangelo, è testimoniare come si vive il Vangelo: testimoniare le Beatitudini, testimoniare Matteo 25, testimoniare il Buon Samaritano, testimoniare il perdono settanta volte sette. E in questa testimonianza, lo Spirito Santo lavora e ci sono delle conversioni. Ma noi non siamo molto entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, aspettano: si parla…, la tradizione vostra…, si fa in modo che una conversione sia la risposta a qualcosa che lo Spirito Santo ha mosso nel mio cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Nel pranzo che ho avuto con i giovani nella Giornata della Gioventù a Cracovia – una quindicina di giovani di tutto il mondo – uno mi ha fatto questa domanda: “Cosa devo dire a un compagno di università, un amico, bravo, ma che è ateo? Cosa devo dirgli per cambiarlo, per convertirlo?”. La risposta è stata questa: “L’ultima cosa che tu devi fare è dire qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo, e se lui ti domanda perché fai questo, gli puoi spiegare perché tu lo fai. E lascia che lo Spirito Santo lo attiri”. Questa è la forza e la mitezza dello Spirito Santo nelle conversioni. Non è un convincere mentalmente con apologetiche, ragioni… no. E’ lo Spirito che fa la conversione. Noi siamo testimoni dello Spirito, testimoni del Vangelo. “Testimone” è una parola che in greco si dice “martire”: il martirio di tutti i giorni, il martirio anche del sangue, quando arriva… La sua domanda: cosa è prioritario, la pace o la conversione? Ma, quando si vive con testimonianza e rispetto, si fa la pace. La pace incomincia a rompersi in questo campo quando incomincia il proselitismo, e ci sono tanti tipi di proselitismo, ma questo non è evangelico. Non so se ho risposto.
Joshua McElwee (National Catholic Reporter): Grazie tante, Santità, e un cambio di tema totale. Durante la guerra fredda, Papa San Giovanni Paolo II ha detto che la politica mondiale di deterrenza nucleare era giudicata come moralmente accettabile. Il mese scorso, in una conferenza sul disarmo, Lei ha detto che lo stesso possesso di armi nucleari è da condannare. Che cosa è cambiato nel mondo che L’ha spinta a fare questo cambiamento? Che ruolo hanno avuto gli insulti e le minacce tra il presidente Trump e Kim Jong-un nelle Sue decisioni? E Lei che cosa dice ai politici che non vogliono rinunciare agli arsenali nucleari e neanche diminuirli?
Papa Francesco: Io preferirei che si facessero prima le domande sul viaggio, lo dico a tutti. Ma faccio un’eccezione perché lui ha fatto la domanda. Cosa è cambiato? E’ cambiata la irrazionalità. A me viene in mente l’Enciclica “Laudato si’”, la custodia del creato, della creazione. Dal tempo in cui Papa San Giovanni Paolo II ha detto questo a oggi sono passati tanti anni… Quanti? Tu hai la data?
Joshua McElwee: 1982.
Papa Francesco: 34 anni. Nel nucleare, in 34 anni, si è andati oltre, oltre, oltre. Oggi siamo al limite. Questo si può discutere, è la mia opinione, ma la mia opinione convinta: io ne sono convinto. Siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari. Perché? Perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità. Per questo collego con la “Laudato si’”. Che cosa è cambiato? Questo. La crescita dell’armamento nucleare. E’ cambiato pure… Sono [armamenti] sofisticati e anche crudeli, sono capaci anche di distruggere le persone senza toccare le strutture… Siamo al limite, e poiché siamo al limite io mi faccio questa domanda – non come Magistero pontificio, ma è la domanda che si fa un Papa -: oggi è lecito mantenere gli arsenali nucleari, così come stanno, o oggi, per salvare il creato, salvare l’umanità, non è necessario andare indietro? Torno a una cosa che avevo detto, che è di Guardini, non è mia. Ci sono due forme di “incultura”: prima l’incultura che Dio ci ha dato per fare la cultura, con il lavoro, con l’investigazione [la ricerca] e avanti, fare cultura. Pensiamo alle scienze mediche, tanto progresso, tanta cultura, alla meccanica, a tante cose. E l’uomo ha la missione di fare cultura a partire dalla incultura ricevuta. Ma arriviamo a un punto in cui l’uomo ha in mano, con questa cultura, la capacità di fare un’altra incultura: pensiamo a Hiroshima e Nagasaki. E questo 60, 70 anni fa. La distruzione. E questo succede anche quando nell’energia atomica non si riesce ad avere tutto il controllo: pensate agli incidenti dell’Ucraina. Per questo, tornando alle armi, che sono per vincere distruggendo, io dico che siamo al limite della liceità.
Greg Burke: Grazie, Santità. Adesso mi hanno fatto segno che le domande cambiano dal viaggio ad altre, quindi se Lei vuole dire qualcosa sul viaggio…
Papa Francesco: Mi piacerebbe qualcuna di più sul viaggio, perché sembrerebbe che non è stato tanto interessante, no?
Delia Gallagher (CNN): Santità, non so quanto Lei possa rispondere, ma sono molto curiosa del Suo incontro con il generale Hein, perché io ho imparato molto su questa situazione, stando qua, e ho capito che a parte Aung San Suu Kyi, c’è anche questo militare che è molto importante nella crisi, che Lei ha incontrato di persona. Che tipo di incontro è stato e come fa a parlare con lui?
Papa Francesco: Furba, la domanda, bella. Io distinguerei fra due tipi di incontri. Gli incontri in cui io sono andato a trovare la gente e gli incontri nei quali io ho ricevuto gente. Nel caso di questo generale, lui ha chiesto di parlare: l’ho ricevuto. Io non chiudo mai la porta. Tu chiedi di parlare? Vieni. Parlando non si perde nulla, si guadagna sempre. E’ stata una bella conversazione. Io non potrei dire, perché è stata privata, ma non ho negoziato la verità, vi assicuro. Ma l’ho fatto in modo tale che lui capisse un po’ che una strada, come era nei brutti tempi, rinnovata oggi, non è percorribile. E’ stato un bell’incontro, civile; e anche lì, il messaggio è arrivato.
Gerry O’Connell (America Magazine): Grazie, Padre. La mia è un po’ uno sviluppo della domanda di Delia. Lei ha incontrato Aung San Suu Kyi, il presidente, i militari, il monaco che crea un po’ di difficoltà…; e poi Lei è andato in Bangladesh, ha incontrato anche il primo ministro, il presidente…; i leader islamici lì e i leader buddisti in Myanmar. La mia domanda: cosa Lei porta via da tutto questo? Qual è la Sua analisi di tutti questi incontri? Quali prospettive per il futuro in uno sviluppo migliore per questi due Paesi, anche considerando la situazione dei rohingya?
Papa Francesco: Non sarà facile, per andare avanti in uno sviluppo costruttivo, e non sarà facile per qualcuno che volesse andare indietro. Siamo in un punto in cui si devono studiare le cose. Qualcuno – non so se è vero – mi ha detto che lo Stato del Rakhine è uno Stato molto ricco in pietre preziose e che forse ci potrebbero essere interessi che fosse una terra un po’ disabitata per lavorare. Ma non so se è vero, queste sono delle ipotesi che si fanno; anche sull’Africa se ne dicono tante… Ma credo che siamo a un punto dove non sarà facile andare avanti, nel senso positivo, e non sarà facile andare indietro, perché la coscienza, oggi, dell’umanità… il fatto, e torni ai rohingya, che le Nazioni Unite abbiano detto che i rohingya siano oggi la minoranza religiosa ed etnica più perseguitata del mondo, questo è un punto che a chi vuole andare indietro deve pesare. Siamo ad un punto in cui, con il dialogo, si può incominciare, un passo e un altro passo, forse mezzo passo indietro e due avanti, ma come si fanno le cose umane: con benevolenza, con dialogo, mai con aggressione, mai con la guerra. Non è facile. Ma è un punto di svolta: si fa, questo punto di svolta, per il bene, o si fa, questo punto di svolta, per tornare indietro? Ah sì, la speranza io non la perdo, perché, sinceramente, se il Signore ha permesso questo che abbiamo vissuto ieri e che abbiamo vissuto in maniera più riservata, oltre i due discorsi [ufficiali alle Autorità], il Signore permette qualcosa per promettere altro. Io ho la speranza cristiana: non si sa mai…
Valentina Alazraki (Televisa): Sul viaggio, era una domanda che volevamo farLe prima e poi non è andata. Noi vorremmo sapere: un Papa che tutti i giorni parla di profughi, rifugiati, migranti…; voleva andare, Lei, nel campo profughi dei rohingya? E perché non ci è andato?
Papa Francesco: E’ vero, mi sarebbe piaciuto andare. Ma non è stato possibile. Si sono studiate le cose, non è stato possibile. Per vari fattori, anche il tempo, anche la distanza, ma anche altri fattori. Ma il campo profughi “è venuto”, come rappresentanze. Mi sarebbe piaciuto, questo è vero, ma non è stato possibile.
Enzo Romeo (Rai): Santità, grazie. Volevo chiederLe due cose, velocemente. Una sulla globalizzazione, perché abbiamo visto, soprattutto in Bangladesh – ed è motivo della domanda legata al viaggio – che è un Paese che sta cercando di uscire dalla povertà, ma con sistemi che sembrano per noi veramente pesanti. Siamo stati a vedere il Rana Plaza, questo luogo dove è crollato l’edificio che era utilizzato per le industrie tessili: 1100 persone morte, 5 mila feriti, per 60 euro al giorno, lavoravano. Nel nostro ristorante, per mangiare un piatto e una pizza, si pagavano 50 euro. Questo sembra incredibile. Secondo Lei, da quanto ha visto e quanto ha sentito, è possibile uscire da questo meccanismo? E l’altra cosa è questa, che abbiamo pensato tutti: sulla questione rohingya, sembrava ci fosse la volontà di intervenire anche da parte dei gruppi jihadisti, al Qaeda, Isis, che – pare – cercavano di farsi tutori di questo popolo, della libertà di questo popolo. E’ interessante che il capo della cristianità si sia mostrato più amico, in qualche maniera, rispetto a questi gruppi estremisti: è giusta questa sensazione?
Papa Francesco: Parto dalla seconda. C’erano gruppi terroristici che cercavano di approfittare della situazione dei rohingya, che sono gente di pace. Come in tutte le etnie e tutte le religioni, c’è sempre anche un gruppo fondamentalista. Anche noi cattolici ne abbiamo. I militari giustificano il loro intervento per questi gruppi. Io non ho scelto di parlare con questa gente, ho scelto di parlare con le vittime di questa gente. Perché le vittime erano il popolo rohingya, che da una parte soffriva quella discriminazione e dall’altra parte era difeso dai terroristi. Ma poveretti! Il governo del Bangladesh ha una campagna molto forte – così mi hanno detto i ministri – di tolleranza-zero al terrorismo, e non solo per questa questione, ma per evitarne anche altre. Questi che si sono arruolati nell’Isis, benché siano rohingya, sono un gruppetto fondamentalista estremista piccolino. Ma questo fanno gli estremisti: giustificano l’intervento che ha distrutto buoni e cattivi.
Greg Burke: E la globalizzazione, la prima domanda…
Enzo Romeo: …che sta cercando dalla globalizzazione, ma a prezzo altissimo, con questa gente sfruttata per pochi soldi…
Papa Francesco: E’ uno dei problemi più seri. Ho parlato di questo negli incontri personali. Loro sono coscienti di questo, sono coscienti pure del fatto che la libertà fino a un certo punto è condizionata, non solo dai militari ma dai grandi trust internazionali. E hanno puntato sull’educazione, e credo che sia stata una scelta saggia. Ci sono piani educativi… Mi hanno fatto vedere le percentuali degli ultimi anni, come è abbastanza scesa la non-educazione. Questa è la scelta loro, e magari andrà bene, perché loro sostengono che con l’educazione il Paese andrà su. Jean-Marie Guénois (Le Figaro): Buonasera. Oggi, dunque, Birmania, il Paese dal quale viene… Prima di questo, Lei è andato in Corea, nelle Filippine, in Sri Lanka… dà l’impressione di fare un giro intorno alla Cina … Dunque, due domande sulla Cina. E’ in preparazione un viaggio in Cina? E seconda domanda: quali cose ha imparato da questo viaggio sulla mentalità asiatica e anche in vista di questo progetto sulla Cina? Qual è lezione per Lei?
Papa Francesco: Per favore, ripeta: quante cose ho imparato in questo viaggio su …?
Jean-Marie Guénois: …per questo progetto sulla Cina. Quali sono le cose che Lei ha imparato sull’Asia, questa volta? Perché dà l’impressione che faccia un giro intorno alla Cina, ma la Cina è sempre chiusa, per il momento…
Papa Francesco: … “mettere il naso” in Cina… Oggi la Signora Consigliere di Stato del Myanmar si è recata a Pechino: si vede che ci sono dei dialoghi…. Pechino ha una grande influenza sulla regione, perché è naturale: il Myanmar non so quanti chilometri di frontiera ha lì; anche nelle Messe c’erano cinesi che sono venuti… Credo che in questi Paesi che circondano la Cina, anche il Laos, la Cambogia, hanno bisogno di buoni rapporti, sono vicini. E questo io lo trovo saggio, politicamente costruttivo se si può andare avanti. Però, è vero che la Cina oggi è una potenza mondiale: se la vediamo da questo lato, può cambiare il panorama. Ma saranno i politologi a spiegarci: io non posso, non so. Ma mi sembra naturale che abbiano un buon rapporto. Il viaggio in Cina non è in preparazione, state tranquilli, per il momento non è in preparazione. Ma tornando dalla Corea, quando mi hanno detto che stavamo sorvolando il territorio cinese, e se volevo dire qualcosa, [dissi] che mi sarebbe piaciuto tanto visitare la Cina. Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta. Le trattative con la Cina sono di alto livello culturale: oggi, per esempio, in questi giorni, c’è una mostra dei Musei Vaticani in Cina, poi ce ne sarà una – o ce n’è stata una, non so – dei Musei cinesi in Vaticano… I rapporti culturali, scientifici, i professori, preti che insegnano all’Università statale cinese, ce ne sono… Questa è una cosa. Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con quella storia della Chiesa patriottica e della Chiesa clandestina, che si deve andare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo. Lentamente. Credo che in questi giorni, oggi o domani, incomincerà una seduta a Pechino della Commissione mista. E questo, con pazienza. Ma le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti, un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo… James Longman (ABC News): Mi scuso, ma non parlo italiano. Grazie per la possibilità di essere sul Suo aereo: per me è la prima volta. Vorrei chiederLe se ha notato quante critiche sono state rivolte a Aung San Suu Kyi? E cosa pensa delle critiche che le sono state rivolte per non essersi espressa in maniera esplicita sulla questione dei rohingya?
Papa Francesco: Ho sentito tutto questo, ho sentito anche le critiche, ho sentito la critica di non essersi recata nella provincia del Rakhine. Poi, lei è andata: ci è andata una mezza giornata, più o meno. Nel Myanmar è difficile valutare una critica senza chiedere: è stato possibile fare questo? Oppure: come sarà possibile fare questo? Con ciò non voglio dire che non sia stato uno sbaglio non andare; ma nel Myanmar la situazione politica… E’ una Nazione in crescita, politicamente in crescita; è una Nazione in transizione che ha tanti valori culturali nella sua storia, ma politicamente è in transizione. E per questo, le possibilità devono valutarsi anche da questa ottica. In questo momento di transizione, sarebbe stato possibile o no fare questo o quell’altro? E vedere se è stato uno sbaglio o non è stato possibile. Non solo per la Signora Consigliere di Stato, anche per il Presidente, per i Deputati, per il Parlamento… Nel Myanmar si deve tenere sempre presente la costruzione del Paese. E lì si fa come ho detto all’inizio: due passi in avanti, uno indietro, due in avanti, uno indietro… la storia ci insegna questo. Non so rispondere altrimenti, con le poche conoscenze che ho sul posto. E io non vorrei cadere in quello che faceva un filosofo argentino, che era invitato a dare delle conferenze in Paesi dell’Asia: una settimana, e quando tornava scriveva un libro sulla realtà di quel Paese. Questo è presuntuoso.
Phil Pullella (Reuters): Sì, vorrei tornare sul viaggio, se è possibile. L’incontro con il generale era originariamente previsto, credo, per giovedì mattina, e se non sbaglio, con i generali; invece Lei avrebbe dovuto vedere prima Aung San Suu Kyi. Quando il generale ha chiesto di vederLa prima, cioè proprio il giorno dell’arrivo, secondo Lei è stato un modo di dire: “Qui comando io, Lei deve vedere me per primo”? E in quel momento lì, Lei si è sentito forse, non so, che lui o loro volessero manipolarLa?
Papa Francesco: Ho capito. La richiesta è stata perché lui doveva andare in Cina, e quando succedono queste cose, se io posso spostare l’appuntamento, lo faccio. Le intenzioni, non le so. Ma a me interessava il dialogo. Un dialogo chiesto da loro e che loro venissero da me: non era prevista la mia visita. E credo che fosse più importante il dialogo del sospetto che fosse proprio quello che Lei dice: “Noi comandiamo qui, siamo i primi”.
Phil Pullella: Posso chiedere – Lei ha detto che non può dire cosa ha detto durante gli incontri privati – però posso chiedere almeno se durante quell’incontro ha usato la parola “rohingya”, con il generale?
Papa Francesco: Io ho usato le parole per arrivare al messaggio e quando ho visto che il messaggio era accettato, ho osato dire tutto quello che volevo dire. Intelligenti pauca.
Giornalista: Buona sera, Santità. Io ho una domanda: ieri, quando siamo stati con i preti che hanno preso i voti, ho pensato se non hanno paura di essere preti cattolici in questo momento della vita cattolica in questo Paese, e se loro hanno chiesto a Lei, a Sua Santità, cosa fare quando arriva la paura e non sanno che fare.
Papa Francesco: Io ho l’abitudine, sempre, cinque minuti prima dell’ordinazione, di parlare con loro in privato. Mi sono sembrati sereni, tranquilli, coscienti, avevano coscienza della missione, poveri, normali. Una domanda che ho fatto è stata: “Giocate a calcio?” – “Sì!”, tutti. Questo è importante. Una domanda teologica! Ma questo della paura non l’ho percepito. Loro sanno che devono essere vicini al loro popolo; sentono che devono essere attaccati al popolo, e questo mi è piaciuto, questo mi è piaciuto. Poi ho parlato con i formatori, qualche vescovo, che mi ha detto: prima di entrare in seminario, si fa un pre-seminario in modo che imparino tante cose, abitudini, che imparino anche perfettamente l’inglese. Questo, per dire una cosa pratica: se non sanno l’inglese, incominciano in seminario, al punto che l’ordinazione non è a 23, 24 ma a 28, 29 anni, più o meno. Sembrano bambini perché loro sembrano tutti giovani, tutti, anche i grandi. Li ho visti sicuri. Ma questo sì, l’avevano: stare vicini al loro popolo. Questo sì. E ci tengono! Perché ognuno di loro appartiene a un’etnia, e a questo ci tengono. Grazie. Vi ringrazio, perché mi dicono che è passato il tempo. Ringrazio per le domande, ringrazio per tutto quello che avete fatto. E cosa pensa il Papa del suo viaggio? A me il viaggio fa bene quando riesco a incontrare il popolo del Paese, il popolo di Dio. Quando riesco a parlare o a incontrarli o a salutarli: incontri con la gente. Abbiamo parlato degli incontri con i politici… Sì, è vero, si deve fare; con i preti, con i vescovi… ma con la gente, questo, il popolo. Il popolo che è proprio il profondo di un Paese. Il popolo. E quando trovo questo, quando riesco a trovarlo, allora sono felice. Vi ringrazio tanto del vostro aiuto: grazie tante. E grazie anche per le domande, per le cose che ho imparato dalle vostre domande. Grazie. Buona cena.
Greg Burke: Grazie, Santità. Buon riposo.
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