Morire a dieci mesi. Condannato da Tribunali che in nome del diritto uccidono anche la speranza.
Per Charlie Gard non ci sarà una seconda possibilità. Già la sorte s’è accanita contro di lui, facendolo nascere minato da una malattia grave e rara, la deplezione del Dna mitocondriale, che genera il progressivo e inesorabile indebolimento dei muscoli: soltanto sedici i casi registrati in tutto il mondo. I genitori, però, non si sono mai arresi. E forti di un’incredibile empatia popolare, erano riusciti a raccogliere quasi un milione e mezzo di sterline, grazie alle donazioni di oltre 83.000 persone, per recarsi negli Stati Uniti e sottoporre il figlio a cure sperimentali non praticate in Gran Bretagna. Ma i medici dell’ospedale londinese in cui il bimbo aveva visto la luce si sono opposti. I Tribunali inglesi di ogni grado hanno dato loro ragione, sostenendo l’inutilità di ogni cura. Perfino la Corte Europea dei diritti umani, adita in ultima istanza, ha mostrato pollice verso. Charlie non ha diritto a vivere né a muoversi liberamente: per la Corte – nella scia di Pilato – nessuna decisione è possibile, tenuto conto «del considerevole margine di manovra che gli Stati hanno nella sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche».
Insomma, nell’era dell’ipertecnicizzazione e delle più strabilianti conquiste scientifiche, c’è poco spazio per i diritti dell’uomo, anche per quello alla vita. E mentre da una parte – in nome della libertà soggettivamente intesa – si fa largo all’eutanasia, dall’altro (per assurdo paradosso) si nega quello stesso diritto e si impone ad un padre e ad una madre di non poter sperare di salvare il loro bambino e di starsene fermi a guardare i medici che stanno per staccare la spina ai macchinari che lo tengono in vita, ignorando quanto detto qualche tempo addietro da papa Francesco: «I bambini sono una ricchezza per l’umanità e anche per la Chiesa, perché ci richiamano costantemente alla condizione necessaria per entrare nel Regno di Dio: quella di non considerarci autosufficienti, ma bisognosi di aiuto, di amore, di perdono. E tutti siamo bisognosi di aiuto, d’amore e di perdono». Lo sono anche coloro i quali, con una scelta assurda, si pongono sopra Dio, addirittura sopra la scienza, di cui si dichiarano estimatori, negando che proprio la scienza – grazie a terapie inusitate ed eccezionali, quale “ultima spes”, possa dare una risposta di vita ad un bimbo che ha diritto alla vita. Se lo guardassero negli occhi, invece di limitarsi a leggerne il nome sui fascicoli, forse ripenserebbero alle parole di Zygmunt Bauman: «La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile».
Invece niente. Solo sentenze fredde. Sentenze di morte in nazioni orgogliose d’aver abolito la pena di morte.
Monsignor Vincenzo Bertolone è arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra.
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Vietato sperare per legge
Per Charlie Gard non ci sarà una seconda possibilità