«Il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si esplica nello zelo».
Diventasse legge la tesi del filosofo gallese Bertrand Russell, avrebbero speranza di giustizia e benessere i tanti giovani che, per non perdere la sfida con un mondo del lavoro che spesso li respinge, si sono ingegnati pur di garantirsi un salario ed una dignità e magari anche la prospettiva di una famiglia. Sociologi e giornalisti, notoriamente a caccia di etichette, li hanno già ribattezzati “zainocrati”: gente che, laurea in tasca, investe nell’acquisto dei mezzi di lavoro – il più delle volte attrezzature ad alta tecnologia – e lascia le agognate mura di uno studio professionale per incollarsi sulle spalle uno zaino nel quale infila poi ferri del mestiere e sogni andando incontro al lavoro, ovunque questo sia.
La Doxa, una delle più importanti aziende di ricerche di mercato, ne ha già scattato una fotografia: i professionisti agili – così detti per la loro propensione alla mobilità – sarebbero almeno 250.000, concentrati per lo più al Nord, con un’età media (tra quelli contrattualizzati) di 41 anni, per lo più uomini (il 69% di essi). Una figura solo all’apparenza marginale, dal momento che la categoria pesa l’8% dell’universo delle professioni. Non a caso, nei giorni scorsi, in Parlamento sono state introdotte norme a disciplina dello smart working, con lo scopo di incentivare la diffusione del modello lavorativo che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe favorire il lavoro da casa o comunque lontano da uffici e fabbriche. Una buona idea, anche perché in genere lo zainocrate è persona professionale, dinamica e conviviale, aperto al confronto. Sulla base delle nuove norme, chi sceglierà questa strada, d’intesa con l’azienda presso la quale è assunto, avrà diritto a conservare stesso stipendio e parità contrattuale. E per chi invece, per lo più trentenne, ha comunque lo zaino ma non ancora un impiego contrattualizzato? La norma nulla dice, ed è perciò da desumere che i geni con partita IVA saranno costretti a cavarsela da soli. Ad andarsene in giro come gli altri, ma con una differenza: nessuna certezza del salario mensile e solo la speranza di arrivare a fine mese, tra una collaborazione e l’altra, col sorriso sulle labbra.
Insomma, un altro volto della precarietà lavorativa che affligge e ferisce le giovani generazioni. Uno schiaffo alla logica, ancor più al bisogno di garantire pari opportunità e soprattutto un futuro all’umanità, dal momento che è ormai pacificamente acclarato che l’incertezza lavorativa incide sulla serenità personale, sulle relazioni interpersonali e ancor più sulla formazione delle famiglie, minando gli indici demografici e – per questa via – le stesse sorti del pianeta e dei suoi inquilini, condannati ad essere sempre più incerti, timorosi, chiusi, vecchi. «Il lavoro – sottolineava nel dicembre del 2015 Papa Francesco – non è un dono gentilmente concesso a pochi raccomandati: è un diritto per tutti e in particolare i giovani devono poter coltivare la fiducia che i loro sforzi, il loro entusiasmo, l’investimento delle loro energie e delle loro risorse non saranno inutili».
È quello che manca, è quello che serve, per garantire un futuro all’umanità.
Monsignor Vincenzo Bertolone è arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra.
Zaino / Pixabay CC0 - StockSnap, Public Domain
I sogni nello zaino
Il “nomadismo professionale” o “zainocrazia” è l’altro volto della precarietà lavorativa che affligge e ferisce le giovani generazioni