Il Pastore di misericordia

Lectio divina – IV Domenica di Pasqua (Anno A) – 7 maggio 2017

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IV Domenica di Pasqua – Anno A – 7 maggio 2017
Rito Romano
At 2,14.36-41; Sal 22; 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10

Rito Ambrosiano
At 6,1-7; Sal 134; Rm 10, 11-15; Gv 10, 11-18

1) Il Pastore buono, che dà la vita.
Al giorno d’oggi, soprattutto nelle società industrializzate e urbane, la figura de pastore è poco conosciuta e apprezzata. Anche l’idea di essere pecore non piace all’uomo contemporaneo, che fa coincidere la libertà con l’autonomia e che si offende quando è chiamato pecora.
Invece, già nell’Antico Testamento la figura del pastore è molto importante. Si pensi per esempio a quanto, in nome di Dio, il profeta Ezechiele scrive: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34, 15-16). La realizzazione di questo oracolo la vediamo in Cristo, pastore buono. In effetti, nel Vangelo il pastore è figura dolce e commovente e ciascuno di noi vorrebbe essere la pecorella smarrita (Lc 15,3-7), che il Buon Pastore mette sulle sue spalle, dopo che con tenacia la cercata.
Ma non solo nella Bibbia la figura del Pastore è importante. Anche nella Chiesa di oggi questa figura mantiene il suo fascino e la sua efficacia. Quanto promesso da Dio al suo popolo antico: “Vi darò Pastori secondo il mio cuore” (Ger 3, 15. ), è sperimentato oggi e quotidianamente dalla Chiesa, nuovo popolo di Dio. La Chiesa sa che Gesù Cristo stesso è il compimento vivo, supremo e definitivo della promessa di Dio: “Io sono il buon pastore” (Gv 10, 11), Lui “il Pastore grande delle pecore “ (Eb 13, 20) ha affidato agli apostoli e ai loro successori il ministero di pascere il gregge di Dio (cfr. Gv 21, 15ss.; 1 Pt 5,2). Grazie ai sacerdoti il popolo di Dio può vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l’obbedienza al comando di Gesù: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28, 19) e “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; cf 1 Cor 11, 24), cioè il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo.
Dunque, preghiamo il Signore che mandi Pastori buoni per la messe matura del mondo e esigiamo dai pastori di oggi di avere sempre Cristo come modello. Lui è il Pastore buono
perché offre la vita per le pecore,
perché espone con coraggio la sua vita per difendere le sue pecore,
perché come Cristo ama le sue pecore e le guida alla comunione con Lui.
La bontà del Pastore si dimostra con il dono di sé perché le pecore a lui affidate vivano ed abbiano la vita in abbondanza e perché conosce le sue pecore. Lui le conosce una per una con amore grande, con cura personale e continua. Le pecore “sentono” questo e conoscono il loro Pastore in quanto buono. “Conoscere” è un verbo che biblicamente sta nella semantica dell’amare: si conosce per amore e solo nell’amore. Come una mamma –anche di notte, al buio- “sente” che il suo bambino sta male, anche se non si lamenta, e si alza per curarlo, così il bambino “sente” la madre che lo cura. L’amore vero è la conoscenza perfetta.
Sull’esempio del Pastore buono, i pastori e le pecore vivano e crescano nell’appartenenza reciproca per crescere nell’appartenenza a Cristo.
2) Appartenenza.
Noi non siamo in balia di forze oscure, di un destino inesorabile: apparteniamo al Signore e siamo conosciuti da Lui che per ciascuno di noi ha donato la sua vita ed è risorto. Se noi ascoltiamo la sua voce, se noi crediamo in Lui, entriamo nel possesso della vita stessa del Signore. La fede, infatti, non è affatto una fra le tante possibili concezioni del mondo. Con essa noi compiamo un passaggio decisivo: il passaggio dalla morte alla vita. “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non incorre nella condanna, ma è passato dalla morte alla vita” (Gv 17, 24), ha detto Gesù. Con la fede, la persona umana abbandona la regione di morte della sua vita ed entra nella terra dei viventi.
La Chiesa ha sempre domandato ai suoi pastori di meditare costantemente questa pagina: di specchiarsi in essa. Perché? Ogni pastore è semplicemente un “segno” del Pastore. Allora meditiamo insieme e lungamente  questa pagina e cerchiamo di riviverla vivendo la comunione fra noi, perché cosi si approfondisca la nostra conoscenza di Cristo e cresca la nostra appartenenza a Cristo.
Nel Vangelo di oggi, il rapporto di ciascuno di noi col Signore risorto è indicato in primo luogo come un rapporto di “appartenenza”: al mercenario le pecore non appartengono, al pastore sì. L’esperienza dell’appartenenza è profonda: essa è per la persona umana ciò che sono le radici per un albero.
Ma in che cosa consiste questa appartenenza? In primo luogo in un rapporto di reciproca conoscenza: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). Questa reciproca conoscenza è un avvenimento assai grande se Gesù lo riporta alla reciproca conoscenza che esiste fra Lui e il Padre. In che cosa consiste? Da parte nostra essa consiste nell’accoglienza consenziente della Parola di Gesù [“ascolteranno la mia voce”], perseverando in essa e lasciandoci come penetrare da essa. Insomma, “conoscere Gesù buon pastore” significa aderire a Lui ed essere da Lui guidati nella nostra esistenza, in una grande e profonda familiarità. La conoscenza da parte nostra di Gesù implica quindi e presuppone la conoscenza da parte di Gesù della nostra persona. Il conoscere e l’essere conosciuti si realizzano come, appunto, una reciproca appartenenza ed un essere disponibili l’uno per l’altro. Questa relazione di comunione fra Gesù e noi suoi fedeli è posta in essere dal dono che Egli fa della sua vita: “e offro la mia vita per le pecore”. Lui si propone Pastore perché: espone, dispone e depone la vita a favore delle pecore. Cioè lui accetta di essere capo perché è servo di tutti, realmente fino a dare la vita, che in lui trovano luce e libertà.
3) Le vergini e il pastore.
Meditando le parole di Cristo che si presente come pastore, cioè come uno che veglia giorno e notte a difesa da mercenari e ladri, per amore dei suoi agnelli per i quali dà la vita, viene da chiedersi se riusciremo davvero a penetrare dentro il cuore di un simile Dio ed  a capire come Lui ci ama. In Cristo vediamo che non è tanto l’uomo che cerca Dio, quanto Dio che cerca l’uomo. L’uomo è la passione ed il dramma di Dio, che per salvarlo discende dal suo Cielo, per ritornarvi con noi.
Come rispondere a questo amore infinito che ci chiede di amare con un amore più forte della morte? Con atti di amore frequenti, recitando per esempio questo “atto di carità”:
“Mio Dio,
ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità;
per amor tuo amo il prossimo come me stesso e perdono le offese ricevute.
Signore, che io ti ami sopra ogni cosa”. E così san Giovanni della Croce spiega l’atto d’amore: “L’atto di amor di Dio è l’azione più semplice, più facile, più breve che si possa fare. Basta dire con semplicità: ‘Mio Dio, io ti amo’. E’ facilissimo compiere un atto di amor di Dio. Si può fare in ogni momento, in ogni circostanza, in mezzo al lavoro, tra la folla, in qualunque ambiente, in un attimo. Iddio è sempre presente, in ascolto, in attesa affettuosa di cogliere dal cuore della sua creatura questa espressione di amore. L’atto d’amore non è un atto di sentimento: è un atto di volontà elevato infinitamente al di sopra della sensibilità ed è anche impercettibile ai sensi. Basta che l’anima dica con semplicità di cuore: Mio Dio, io ti amo” (San Giovanni della Croce).
In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate che con il dono totale ed esclusivo a Cristo collaborano con il buon Pastore condividendo la sua  missione di guidare alla santità vivendo un amore  che non si spegna con la morte ma si eterna nel Paradiso. Il loro servizio alla pastorale è, quindi, non quello di fare ma di essere, testimoniando un’appartenenza a Cristo, la cui compito diventa la loro missione. In primo luogo sono chiamate a comunicare quello che sono: Spose di Cristo.  A questo riguardo è importante ricordare che il loro rito di consacrazione prevede la consegna tra i quattro segni, i due che esprimono il nuovo stato di consacrata. Come simbolo nuziale si usa l’anello che figura per la prima volta nel Pontificale Romano-Germanico verso l’anno 950 e la consegna del Libro della Preghiera della Chiesa, un uso noto nel sec. xv e ancor oggi attuale, perché come insegna il Concilio Vaticano II, la Liturgia delle Ore deve diventare la preghiera di ogni cristiano, per pregare in nome della Chiesa servendosi della Preghiera della Chiesa. Una preghiera sponsale ed ecclesiale i cui cardini sono la Bibbia, vista come il libro dello sposo, l’Eucaristia “sacramento nuziale”, la Liturgia delle Ore “voce della sposa allo sposo”.

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Lettura Patristica

Tommaso d’Aquino

Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.

Il Signore propone la parabola della porta dell’ovile e del buon pastore. Chi non entra nell’ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: “Io sono la porta e Io sono il buon pastore”.

Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d’esser lui la porta dell’ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: “Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi”. E la similitudine è introdotta con le parole: “Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: – In verità, in verità vi dico”; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei discepoli e sottolineare l’importanza di quanto il Maestro vuol dire.

“Io sono la porta”: L’ufficio della porta è quello d’immettere nella casa. E questo s’addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (Ps 117,10): “Questa è la porta del Signore” – Cristo – “e i giusti entreranno in essa”. Precisa: “Porta del gregge”, perché non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com’è detto appresso: “Le mie pecore ascoltano la mia voce… e mi seguono, e io do loro la vita eterna”.

Poi, quando dice: “Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi”, dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.

Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l’errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l’interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.

Prima di tutto perché contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: “Chi non entra per la porta è ladro e bandito”. Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti “prima” di Cristo, ma coloro che non son passati “attraverso la porta”, che è Cristo. È chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perch‚ proprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell’eternità, come Verbo di Dio (He 13,8, “Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli”). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sg 7,27, “La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio”). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente «La Parola di Dio è giunta al Profeta», proprio perché, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.

“Coloro che sono venuti”: Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (Jr 22,21): “Io non li mandai, ma essi correvano”. Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3, “Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente”). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perché essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.

Ed è anche falsa l’interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d’Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (Ac 7,52, “Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?” e Mt 23,37, “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te!)”.

Bisogna dire dunque: “Tutti quelli che son venuti”, non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l’intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un’autorità d’insegnamento che non gli spetta (Is 1,23, “I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri)”;e “sono banditi”, perché uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: “Voi ne avete fatto una spelonca di ladri”; e Os 6,9: “Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada)”. Ma “costoro”, cioè i ladri e banditi, “le pecore non li ascoltarono”, almeno in modo costante, perch‚ altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perché “non segue un forestiero e fugge da lui”.

“Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo”.

Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: “Potrà entrare e uscire”. La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall’esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s’addice a Cristo, poiché in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch’egli vuol dire con le parole: “Se uno entrerà attraverso me” nella Chiesa, “sarà salvo”. Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (Ac 6,12, “Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi”; e Rm 5,10, “Tanto più saremo salvi nella sua vita”).

Il modo della salvezza è significato con le parole: “Entrerà e uscirà e troverà pascoli”; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.

Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: “entrerà e uscirà”, vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (Nb 27,16, “Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perché il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore”). “E troverà pascoli”, cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (Ac 5,41, “Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù”).

La seconda spiegazione è di sant’Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.

Chi fa il bene realizza un’armonia tra ciò ch’è dentro di lui e con ciò ch’è fuori di lui. Al di dentro dell’uomo c’è lo spirito, al di fuori c’è il corpo (2Co 6,16, “Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno). Colui dunque, ch’è unito a Cristo, “entrerà” attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sg 8,16, Entrando nella mia casa – la coscienza -, “mi riposerò con essa” -la Sapienza -); e “uscirà” fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Ps 103,23, “Uscirà l’uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera”); “e troverà pascoli”, nella coscienza pura e devota (Ps 16,15, “Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria”) e anche nel lavoro (Ps 125,6, “Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni”).

La terza interpretazione di san Gregorio.

“Entrerà” nella Chiesa, credendo (Ps 41,5, “Andrò dov’è una tenda meravigliosa”), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; “e uscirà”, cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11, “Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze”); “e troverà pascoli” di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Ps 22,2, “Mi pose nel luogo del cibo”); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14, “Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi”).

La quarta spiegazione è nel libro “De Spiritu et Anima”, che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi “entreranno” per contemplare la divinità di Cristo e “usciranno” per ammirare la sua umanità; e nell’una e nell’altra “troveranno pascoli”, perché nell’una e nell’altra gusteranno le gioie della contemplazione (Is 33,17, “Vedranno il re nel suo splendore”).

Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: “Io son venuto, perché abbiano la vita”. Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta – che è lui – sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, “il ladro non viene che per rubare”, per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sè coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene “per uccidere”, diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (Os 6,9, “Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem”). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Jr 50,6, “Il mio popolo è diventato un gregge perduto”). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.

“Io venni perché abbiano la vita”. E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l’opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. “Io son venuto perché abbiano la vita” della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (He 10,38 Rm 1,17, “Il giusto vive di fede”). Di questa fede, è detto in Jn 3,14: “Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. E perché l’abbiano più abbondantemente”; abbiano cioè la vita eterna all’uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Jn 17,8) ch’essa consiste “nel conoscere te solo vero Dio”.

Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (1P 2,25, “Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime”; e Is 40,11, “Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge”). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l’aggettivo “buono”. Buono perché compie l’ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l’ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch’egli entra nell’ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perché egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perché attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perché nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: “Era la luce vera che illumina ogni uomo” (Jn 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sè; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Jr 3,5, Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: “Io sono il buon pastore”, per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.

Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: “Il pastore buono dà la vita per le sue pecore”. Bisogna sapere che c’è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: “Guai ai pastori che pascono se stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore”? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perché non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perché ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: “Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo”. Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poiché la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: “Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore”; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 1Jn 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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