Padre Raniero Cantalamessa ofmcap - Foto © Servizio Fotografico - L'Osservatore Romano

Cantalamessa: "Il cristianesimo non aumenta la paura della morte, la toglie"

La terza predica di Quaresima del predicatore della Casa Pontificia è incentrata sul mistero pasquale

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Proponiamo il testo integrale della terza predica di Quaresima pronunciata stamattina, 24 marzo 2017, nella Casa Pontificia da padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia.
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  1. Lo Spirito Santo nel mistero pasquale di Cristo

Nelle due precedenti meditazioni abbiamo cercato di mostrare come lo Spirito Santo ci introduce alla “piena verità” sulla persona di Cristo, facendocelo conoscere come “Signore” e come “Dio vero da  Dio vero”.  Nelle rimanenti meditazioni la nostra attenzione, dalla persona, si sposta sull’operato di Cristo, dall’essere all’agire. Cercheremo di mostrare come lo Spirito Santo illumina il mistero pasquale, e in primo luogo, nella presente meditazione, il mistero della sua e della nostra morte.
Appena reso pubblico il programma di queste prediche di Quaresima, in una intervista per l’Osservatore Romano, mi è stata rivolta la domanda: “Quanto spazio per l’attualità ci sarà nelle sue meditazioni?” Ho risposto: se si intende “attualità” nel senso di riferimenti a situazioni o eventi in atto, temo che ci sia ben poco di attuale nelle prossime prediche di Quaresima. Ma, a mio parere, “attuale” non è solo “ciò che è in atto” e non è sinonimo di “recente”. Le cose più ”attuali” sono quelle eterne, cioè quelle che toccano le persone nel nucleo più intimo della propria esistenza, in ogni epoca e in ogni cultura. È la stessa distinzione che c’è tra “l’urgente” e “l’importante”. Noi siamo tentati sempre di anteporre l’urgente all’importante e di anteporre il “recente”  all’”eterno”. È una tendenza che  il ritmo incalzante della comunicazione e il bisogno di novità dei media rendono oggi particolarmente acuta.
Cosa c’è di più importante e attuale per il credente, e anzi per ogni uomo per ogni donna, che sapere se la vita ha un senso o no, se la morte è la fine di tutto o, al contrario, l’inizio della vera vita? Ora il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo è l’unica risposta a tali problemi. La differenza che c’è tra questa attualità e quella mediatica della cronaca è la stessa che c’è tra chi passa il tempo a guardare il disegno lasciato dall’onda sulla spiaggia (che l’onda successiva cancella!), e chi alza lo sguardo a contemplare il mare nella sua immensità.
Con questa consapevolezza meditiamo dunque sul mistero pasquale di Cristo, iniziando dalla sua morte di croce.
La Lettera agli Ebrei dice che Cristo “mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14). “Spirito eterno” è un altro modo per dire Spirito Santo, come attesta già una variante antica del testo. Questo vuol dire che, come uomo, Gesú ricevette dallo Spirito Santo che era in lui l’impulso a offrirsi in sacrificio al Padre e la forza che lo sostenne durante la sua passione. La liturgia esprime questa stessa convinzione, quando, nella preghiera che precede la comunione, fa dire al sacerdote: “Signore Gesú Cristo, Figlio di  Dio vivo, per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo (cooperante Spiritu Sancto) hai dato la vita al mondo”.
Avviene per il sacrificio come per la preghiera di Gesú. Un giorno Gesú “esultò nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra” (Lc 10, 21). Era lo Spirito Santo che suscitava in lui la preghiera ed era lo Spirito Santo che lo spingeva a offrirsi al Padre. Lo Spirito Santo che è il dono eterno che il Figlio fa di se stesso al Padre nell’eternità, è anche la forza che lo spinge a farsi dono sacrificale al Padre per noi nel tempo.
Il rapporto tra lo Spirito Santo e la morte di Gesú è messo in rilievo soprattutto nel vangelo di Giovanni. “Non c’era ancora lo Spirito – commenta l’evangelista a proposito della promessa dei fiumi di acqua viva – perché Gesú non era ancora stato glorificato” (Gv 7, 39), cioè, secondo il significato di questa parola in Giovanni, non era stato ancora elevato sulla croce. Dalla croce Gesú “emette lo spirito”, simboleggiato dall’acqua e dal sangue; scrive infatti nella Prima Lettera: “Tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue” (1 Gv 5, 7-8).
Lo Spirito Santo porta Gesú alla croce e dalla croce Gesú dona lo Spirito Santo. Al momento della nascita e poi, pubblicamente, nel suo battesimo, lo Spirito Santo è dato a Gesú; nel momento della morte Gesú da lo Spirito Santo: “Dopo aver ricevuto lo Spirito Santo promesso, egli lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire”, dice Pietro alle folle il giorno di Pentecoste (At 2, 33). I Padri della Chiesa amavano mettere in luce questa reciprocità. “Il Signore –scriveva sant’Ignazio d’Antiochia – ha ricevuto sul suo capo un’unzione profumata (myron), per spirare sulla Chiesa l’incorruttibilità”[1].
A questo punto dobbiamo richiamare alla mente l’osservazione di sant’Agostino circa la natura dei misteri di Cristo. Secondo lui, si ha una vera celebrazione a modo di mistero e non solo a modo di anniversario, quando “non solo si commemora un avvenimento, ma lo si fa pure in modo che si capisca il suo significato per noi e lo si accolga santamente”[2]. Ed è quello che vorremmo fare in questa meditazione, guidati dallo Spirito Santo: vedere cosa significa per noi la morte di Cristo, che cosa essa ha cambiato a proposito della nostra morte.

  1. Uno è morto per tutti.

Il credo della Chiesa termina con le parole ”Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Non menziona quello che precederà la risurrezione e la vita eterna, e cioè la morte. Giustamente, perché la morte non è oggetto di fede, ma di esperienza. La morte però ci riguarda troppo da vicino per passarla sotto silenzio.
Per poter valutare il cambiamento operato da Cristo nei confronti della morte, vediamo quali furono i rimedi tentati dagli uomini al problema della morte, anche perché essi sono quelli con cui anche oggi l’uomo cerca di “consolarsi”. La morte è il problema umano numero uno. Sant’Agostino anticipa la riflessione filosofica moderna sulla morte.
“Quando nasce un uomo – scrive – si fanno tante ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse sarà ricco, forse sarà povero; forse vivrà a lungo, forse no… Ma di nessuno si dice: forse morirà o forse non morirà. Questa è l’unica cosa assolutamente certa della vita. Quando sappiamo che uno è malato di idropisia (allora era questa la malattia incurabile, oggi sono altre) diciamo: “Poveretto, deve morire; è condannato, non c’è rimedio”. Ma non dovremmo dire lo stesso di uno che nasce? “Poveretto, deve morire, non c’è rimedio, è condannato!”. Che differenza fa se in un tempo un po’ più lungo, o un po’ più breve? La morte è la malattia mortale che si contrae nascendo”[3].
Forse più che una vita mortale, la nostra è da considerarsi una “morte vitale”, un vivere morendo.[4] Questo pensiero di Agostino è stato ripreso, in chiave secolarizzata, da Martin Heidegger che ha fatto entrare la morte a pieno diritto nell’oggetto della filosofia. Definendo la vita e l’uomo “un-essere-per-la-morte”, egli fa della morte non un incidente che pone fine alla vita, ma la sostanza stessa della vita, ciò di cui essa è tessuta. Vivere è morire. Ogni istante che viviamo è qualcosa che viene bruciato, sottratto alla vita e consegnato alla morte[5]. “Vivere-per-la-morte” significa che la morte non è solo la fine, ma anche il fine della vita. Si nasce per morire, non per altro. Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla. Il nulla è l’unica possibilità dell’uomo.
È il più radicale rovesciamento della visione cristiana, secondo cui l’uomo è un “essere-per- l’eternità”. Tuttavia, l’affermazione cui è approdata la filosofia dopo la sua lunga riflessione sull’uomo non è né scandalosa né assurda. Semplicemente, la filosofia fa il suo mestiere; mostra quale sarebbe il destino umano lasciato a se stesso. Aiuta a comprendere la differenza che fa la fede in Cristo.
Più che la filosofia sono forse i poeti a dire le parole di sapienza più semplici e più vere sulla morte. Uno di essi, Giuseppe Ungaretti, parlando dello stato d’animo dei soldati in trincea nella Grande Guerra, ha descritto la situazione di ogni uomo di fronte al mistero della morte:
“Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie”.
La stessa Scrittura dell’Antico Testamento non ha una risposta chiara sulla morte. Di questa si parla nei libri sapienziali ma sempre in chiave di domanda, più che di risposta. Giobbe, i Salmi, il Qoelet, il Siracide, la Sapienza: tutti questi libri dedicano un’attenzione notevole al tema della morte. “Insegnaci a contare i nostri giorni – dice un salmo – e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90, 12). Perché si nasce? Perché si muore? Dove si va dopo morti? Sono tutte domande che per il saggio dell’Antico Testamento restano senza altra risposta che questa: Dio vuole così; su tutto ci sarà un giudizio.
La Bibbia ci riferisce le opinioni inquietanti degli increduli del tempo: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Non c’è ritorno dalla morte… Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati” (Sap 2, 1 ss). Soltanto in questo libro della Sapienza, che è il più recente dei libri sapienziali, la morte comincia a essere rischiarata dall’idea di una retribuzione ultraterrena. Le anime dei giusti, si pensa, sono nelle mani di Dio, anche se non si sa cosa questo vuole dire precisamente (cf Sap 3, 1). È vero che in un salmo si legge: “Preziosa è al cospetto del Signore la morte dei suoi fedeli” (Sal 116, 15). Ma non possiamo appoggiarci troppo su questo versetto tanto sfruttato, perché il significato della frase sembra essere un altro: Dio fa pagare cara la morte dei suoi fedeli; cioè ne è il vindice, ne chiede conto.
Come ha reagito l’uomo a questa dura necessità? Un modo sbrigativo è stato quello di non pensarci, distrarsi. Per Epicuro, per esempio, la morte è un falso problema: “Quando ci sono io – diceva – non c’è ancora la morte; quando c’è la morte non ci sono più io”. Essa dunque non ci riguarda. A questa logica di esorcizzare la morte rispondono anche le leggi napoleoniche che spostavano i cimiteri fuori dell’abitato.
Ci si è appigliati anche a rimedi positivi. Il più universale si chiama la prole, sopravvivere nei figli; un altro, sopravvivere nella fama: “Non morirò del tutto (“non omnis moriar”) – diceva il poeta latino –, perché resteranno di me i miei scritti, la mia fama”. “Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo”[6]. Per il marxismo l’uomo sopravvive nella società del futuro, non come individuo, ma come specie.
Un altro di questi rimedi palliativi è la reincarnazione. Ma è una stoltezza. Coloro che professano questa dottrina come parte integrante della loro cultura e religione, cioè coloro che sanno veramente che cos’è la reincarnazione, sanno anche che essa non è un rimedio e una consolazione, ma una punizione. Non è una proroga concessa al godimento, ma alla purificazione. L’anima si reincarna perché ha ancora qualcosa da espiare, e se deve espiare, dovrà soffrire. La parola di Dio tronca tutte queste vie di fuga illusorie: “È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio” (Eb 9, 27). Una sola volta! La dottrina della reincarnazione è incompatibile con la fede dei cristiani.
Ai nostri giorni si è andati oltre. Esiste un movimento a livello mondiale chiamato “transumanesimo”. Esso ha molte facce, non tutte negative, ma il suo nucleo comune è la convinzione che la specie umana, grazie ai progressi della tecnologia, è ormai incamminata a un radicale superamento di se stessa, fino a vivere per secoli e forse per sempre! Secondo uno dei suoi più noti rappresentanti, Zoltan Istvan, il traguardo finale sarà “diventare come  Dio e vincere la morte”. Un credente ebreo o cristiano non può non pensare immediatamente alle parole quasi identiche pronunciate all’inizio della storia umana: “Non morirete affatto, anzi sarete come  Dio” (cf Gen 3,4-5), con il risultato che conosciamo.

  1. La morte è stata inghiottita dalla vittoria

Esiste un solo, vero rimedio alla morte e noi cristiani defraudiamo il mondo se non lo proclamiamo con la parola e la vita. Sentiamo come l’Apostolo Paolo annuncia al mondo questo cambiamento:
“Se per la caduta di uno solo, molti sono morti, a maggior ragione la grazia di Dio e il dono della grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo, sono stati riversati abbondantemente su molti […]. Infatti, se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno, tanto più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo” (Rom 5, 12-17).
Con maggiore lirismo, il trionfo di Cristo sulla morte è descritto nella Prima Lettera ai Corinti:
“La morte è stata sommersa nella vittoria”. “O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?” Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge; ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo” (1 Cor 15, 54-57).
Il fattore decisivo è collocato al momento della morte di Cristo: “Egli è morto per tutti” ( 2 Cor 5,15). Ma cosa è avvenuto di tanto decisivo in quel momento da cambiare il volto stesso della morte? Possiamo rappresentarcelo visivamente così. Il Figlio di Dio è sceso nella tomba, come in una prigione oscura, ma ne è uscito dalla parete opposta. Non è tornato indietro per dove era entrato, come Lazzaro che deve però tornare a morire. No, egli ha aperto una breccia sul versante opposto per la quale tutti quelli che credono in lui possono seguirlo.
Scrive un antico Padre: “Egli prese su di sé le sofferenze dell’uomo sofferente mediante il suo corpo capace di soffrire, ma con lo Spirito che non poteva morire, Cristo ha ucciso la morte che uccideva l’uomo”.[7] E sant’Agostino: “Attraverso la passione Cristo passa dalla morte alla vita e apre così a noi che crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita”[8]. La morte è diventata un passaggio e un passaggio a ciò che non passa!  Dice bene il Crisostomo:
“È vero, noi moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte: e questo non è morire. Il potere e la forza reale della morte è soltanto questo: che un morto non ha alcuna possibilità di ritornare alla vita. Ma se dopo la morte egli riceve di nuovo la vita e, anzi, gli è data una vita migliore, allora questa non è più morte, ma un sonno”.[9]
Tutti questi modi di spiegare il senso della morte di Cristo sono veri, ma non ci danno la spiegazione più profonda. Questa va cercata in quello che, con la sua morte, Gesú è venuto a mettere nella condizione umana, più che in ciò che è venuto a togliere; va cercata nell’amore di Dio, non nel peccato dell’uomo. Se Gesú soffre e muore di una morte violenta inflittagli per odio, non lo fa solo per pagare al posto degli uomini il loro insolvibile debito (il debito di diecimila talenti, nella parabola, viene condonato dal re!); muore crocifisso perché la sofferenza e la morte degli esseri umani siano abitate dall’amore!
L’uomo si era condannato da solo a una morte assurda ed ecco che entrando in questa morte egli scopre ormai che essa è permeata dell’amore di  Dio. L’amore non ha potuto fare a meno della morte, a causa della libertà dell’essere umano: l’amore di Dio non può eliminare con un colpo di bacchetta magica la tragica realtà del male e della morte. Il suo amore è costretto a lasciare che la sofferenza e la morte dicano la loro parola. Ma poiché l’amore è penetrato nella morte e l’ha riempita della divina presenza, è l’amore ormai a dire l’ultima parola..

  1. Che cosa è cambiato della morte

Che cosa dunque è cambiato, con Gesú, riguardo alla morte? Nulla e tutto! Nulla per la ragione, tutto per la fede. Non è cambiata la necessità di entrare nella tomba, ma viene data la possibilità di uscirne. È quello che illustra con potenza l’icona ortodossa della risurrezione, di cui vediamo una interpretazione moderna nella parete di sinistra di questa cappella. Il Risorto scende negli inferi e trascina fuori con sé Adamo ed Eva e dietro di loro tutti quelli che si aggrappano a lui, negli inferi di questo mondo.
Questo spiega l’atteggiamento paradossale del credente di fronte alla morte, così simile a quello di tutti gli altri e così diverso. Un atteggiamento fatto di tristezza, paura, orrore, perché sa di doversi calare in quell’abisso oscuro; ma anche di speranza perché sa di poterne uscire. “Se ci rattrista la certezza di dover morire –dice il prefazio dei defunti – ci consola la speranza dell’immortalità futura”. Ai fedeli di Tessalonica, afflitti dalla morte di alcuni di loro, S. Paolo scriveva:
“Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati” ( 1 Tess 4, 13-14).
Non chiede loro di non essere afflitti per la morte, ma di non esserlo “come gli altri”, come i non credenti. La morte non è per il credente la fine della vita, ma l’inizio di quella vera; non è un salto nel vuoto, ma un salto nell’eternità. Essa è una nascita ed è un battesimo. È una nascita, perché solo allora comincia la vita vera, quella che non va verso la morte, ma dura per sempre. Per questo la Chiesa non celebra la festa dei santi nel giorno della loro nascita terrena, ma in quello della loro nascita al cielo, il loro “dies natalis”. Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi”[10].
La morte è anche un battesimo. Così designa Gesú la sua stessa morte: “C’è un battesimo con cui devo essere battezzato”(Lc 12,50). San Paolo parla del battesimo come di un essere “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,4). Anticamente, al momento del battesimo la persona veniva calata interamente nell’acqua; tutti i peccati e tutto l’uomo vecchio restavano sepolti nell’acqua e ne usciva una creatura nuova, simboleggiata dalla tunica bianca di cui veniva rivestito. Così succede nella morte: muore il bruco, nasce la farfalla. Dio “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4). Tutto sepolto per sempre.
Per diversi secoli, specialmente dal Seicento in poi, un aspetto importante dell’ascesi cattolica consisteva nell’”apparecchio alla morte”, cioè nel meditare sulla morte, descrivendone visivamente i diversi stadi e  il suo inesorabile avanzare dalla periferia del corpo fino al cuore. Quasi tutte le immagini dei santi dipinte in questo periodo li mostrano con un teschio accanto, anche Francesco d’Assisi che pure aveva chiamato la morte “sorella”.
Una delle attrazioni turistiche di Roma è ancora il cimitero dei Cappuccini di via Veneto. Non si può negare che tutto questo possa costituire un richiamo ancora utile per un’epoca così secolarizzata e spensierata come la nostra; soprattutto se si legge come un ammonimento rivolto a chi guarda la scritta  che campeggia sopra uno degli scheletri: “Quello che tu sei, io fui; quello che io sono, tu sarai”.
Tutto questo  ha dato a qualcuno il pretesto di dire che il cristianesimo si fa strada con la paura della morte.  Ma è un errore terribile. Il cristianesimo, abbiamo visto, non è fatto per aumentare la paura della morte, ma per toglierla; Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, è venuto “per liberare quelli che, per paura della morte, erano tenuti soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Il cristianesimo non si fa strada con il pensiero della nostra morte, ma con il pensiero della morte di Cristo!
Per questo, più efficace che meditare sulla nostra morte, è meditare sulla passione e la morte di Gesú e dobbiamo dire, ad onore delle generazioni che ci hanno preceduto, che tale meditazione era anch’essa pane quotidiano nella spiritualità dei secoli ricordati. Essa è una meditazione che suscita commozione e gratitudine, non angoscia; ci fa esclamare, come all’apostolo Paolo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20).
Un “pio esercizio” che mi sentirei di raccomandare a tutti durante la Quaresima è quello di prendere in mano un Vangelo e leggere per conto proprio, con calma e per intero, il racconto della passione. Basta meno di mezz’ora. Ho conosciuto una donna intellettuale che si professava atea. Un giorno le cade addosso una di quelle notizie che lasciano tramortite: sua figlia di sedici anni ha un tumore alle ossa. La operano. La ragazza torna dalla sala operatoria martoriata, con tubi, sondini e flebo da tutte le parti. Soffre terribilmente, geme e non vuole sentire nessuna parola di conforto.
La mamma, sapendola pia e religiosa, pensando di farle piacere, le dice: “Vuoi che ti legga qualcosa del Vangelo?”. “Sì, mamma!”. “Che cosa?”. “Leggimi la passione”. Lei, che non aveva mai letto un Vangelo, corre a comprarne uno dai cappellani; si siede accanto al letto e comincia a leggere. Dopo un po’ la figlia si addormenta, ma lei continua, nella penombra, a leggere in silenzio fino alla fine. “La figlia si addormentava – dirà lei stessa nel libro scritto dopo la morte della figlia –, e la mamma si risvegliava!”. Si risvegliava dal suo ateismo. La lettura della passione di Cristo le aveva cambiato per sempre la vita[11].
Terminiamo con la semplice ma pregnante preghiera della liturgia: “Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”. “Ti adoriamo e ti benediciamo, Cristo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo”.
 
[1] S. Ignazio d’Antiochia, Lettera agli Efesini, 17.
[2] S. Agostino, Epistola 55,1,2 (CSEL, 34,1, p.170).
[3] Cf. S. Agostino, Sermo Guelf. 12, 3 (Misc. Ag. I, p. 482 s.).
[4] S. Agostino, Confessioni I, 6, 7.
[5] Cf. M. Heidegger, Essere e Tempo, § 51, Longanesi, Milano 1976, p. 308 s.
[6] Orazio, Odi, III, 30,1.6.
[7] Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 66 (SCh 123, p. 96).
[8] S. Agostino, Commento ai Salmi, 120,6)
[9] S. Giovanni Crisostomo, In Haebr, hom. 17,2 (PG 63, 129).
[10] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 1-2, a cura di U. Neri, UTET, Torino 1971, 65-67.
[11] Cf. Rosanna Garofalo, Sopra le ali dell’aquila, Ancora, Milano 1993.

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ZENIT Staff

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