Si tiene da oggi, 14 marzo 2017, il 28esimo Corso sul Foro interno per la preparazione dei Sacerdoti al ministero della Confessione. Gli iscritti sono oltre 600. I 3 giorni di lezioni si svolgeranno nel Palazzo della Cancelleria dove ha la sede la Penitenzieria Apostolica (Piazza della Cancelleria 1). Venerdì prossimo, 17 marzo, i partecipanti saranno ricevuti in udienza dal Papa, che, nel pomeriggio presiederà una Celebrazione penitenziale nella Basilica di San Pietro. Il corso si è aperto oggi con una lectio magistralis del card. Mauro Piacenza, penitenziere maggiore, sul tema “Eredità e prospettive dell’Anno della Misericordia nella pastorale della Chiesa”. Per gentile concessione del card. Piacenza, proponiamo il testo integrale della prolusione.
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Carissimi Amici,
sono particolarmente lieto di poter condividere con voi questo tempo, nel quale gettare insieme uno sguardo sull’Anno Giubilare straordinario della Misericordia, che Papa Francesco ci ha chiamato a vivere, come Chiesa e come singoli, traendo da tale sguardo retrospettivo possibili indicazioni pastorali nella vita concreta della Chiesa.
Prima di ogni altra analisi desidero fare una premessa derivante anche dal mio ufficio di Penitenziere Maggiore. La prima grande eredità dell’Anno della Misericordia è quella spirituale, insondabile, nascosta nel Cuore di Dio e riversata nel cuore degli uomini. Non c’è analisi, nè ci sono parametri, che possano “misurare” l’altezza, la larghezza e la profondità dei doni soprannaturali di grazia, che lo Spirito Santo ha elargito alla Chiesa in questo anno. Le centinaia di migliaia – oserei dire milioni – di confessioni sacramentali, di atti di conversione, di opere di misericordia, che il Giubileo straordinario ha favorito, costituiscono il vero tesoro spirituale di ogni Giubileo e, in particolare, di questo Giubileo. I cuori che si sono aperti all’azione della Grazia e ciò che lo Spirito Santo ha suscitato in essi rimane in gran parte insondabile, rimane racchiuso in quella sfera soprannaturale, che si riverbera nella duplice dimensione della vita della Chiesa: totalmente umana e totalmente divina.
Tengo molto a sottolineare questo aspetto, perché laddove si fanno bilanci e si indicano prospettive, è sempre presente il rischio di una possibile riduzione funzionalistica, dalla quale mi sento particolarmente e decisamente alieno. È necessario, soprattutto in questo nostro tempo, talvolta così confuso, volgersi alla realtà con lo sguardo della teologia della storia, consapevoli che l’intera vicenda umana – e in essa quella ecclesiale – è guidata da Dio e che il Risorto è davvero il Centro del cosmo e della storia, il Re dell’universo ed Egli solo ha in mano il destino della Sua Sposa, la Chiesa.
Certamente quest’abbondanza di frutti soprannaturali feconderà la terra e la farà germogliare, come e dove non è dato a noi di saperlo, mentre sappiamo con certezza che «né chi pianta, né chi iriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere» (1Cor 3,7).
Con questa essenziale premessa, che è anche la chiave interpretativa di questo mio intervento, mi accingo ora ad evidenziare alcuni aspetti che ritengo possano essere sinteticamente significativi dell’eredità spirituale dell’Anno della Misericordia, mentre cercheremo di individuare, successivamente, alcune prospettive per la pastorale della Chiesa.
- Eredità dell’Anno della Misericordia
Tutti gli avvenimenti accaduti in questo Anno della Misericordia potrebbero utilmente essere sintetizzati dalla categoria teologica della “prossimità”. Potremmo dire che una eredità del Giubileo è l’esperienza della prossimità della misericordia come via maestra per sperimentare la prossimità di Dio. In un contesto culturale come quello contemporaneo, nel quale l’uomo pare aver perso il senso del soprannaturale e della Trascendenza e, parallelamente, aver smarrito la capacità di usare la ragione in modo rigoroso e coerente, l’annuncio e l’esperienza della Misericordia appaiono come una via alternativa percorribile, perché il “Dio dimenticato” torni ad essere presente e perché la “ragione oscurata” si ridesti.
Di misericordia, dell’abbraccio accogliente di Dio e dei fratelli, tutti hanno bisogno. Non c’è uomo – anche colui che si concepisce come il più distante da Dio – che non abbia bisogno di misericordia. Essa rappresenta, perciò, nella temperie culturale contemporanea, una categoria universale, capace di toccare le corde profonde del cuore, aprendo così alla relazione con Dio e con i fratelli e all’accoglienza della salvezza.
Accogliere la misericordia significa permettere a Dio di amarci, facendo esperienza della Sua gratuità sovrana e recuperando la propria dimensione creaturale. Non è un caso, infatti, che già nell’Antico Testamento, due verbi siano riservati esclusivamente a Dio: il verbo “creare” e il verbo “perdonare”.
Chi fa esperienza del perdono è chiamato a riscoprire la propria creaturalità, poiché solo Colui che ha creato può perdonare e Colui che perdona è Colui che ha creato. In tal senso, il perdono divino è l’unica realtà capace di “ri-creare”, capace di rinnovare realmente, capace di dare nuova vita, capace di fare nuove tutte le cose.
Per tale ragione, l’esperienza della misericordia, della prossimità della misericordia è un’eredità importante di questo Anno Giubilare, portando con sé la memoria della creaturalità e, dunque, la possibilità, per l’uomo del nostro tempo, di riscoprire il rapporto con Dio. In questa dinamica di prossimità, ciascuno vive la propria esperienza spirituale e, dunque, per alcuni l’esperienza della prossimità della misericordia di Dio avrà aperto il cuore ad una nuova carità verso i fratelli, mentre per qualcun altro la scoperta della prossimità del fratello o al fratello sarà stata via per scoprire – o riscoprire – la prossimità della misericordia di Dio.
Questa esperienza della prossimità di Dio è, in definitiva, un’esperienza squisitamente cristiana. Che cos’è, infatti, l’Avvenimento cristiano se non l’Incontro con il fatto storico dell’Incarnazione, l’incontro con la massima prossimità di Dio all’uomo, che si realizza definitivamente in Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Che la riscoperta della prossimità di Dio passi attraverso l’esperienza della misericordia è un dato centrale del Nuovo Testamento, anche se è stato variamente sottolineato nelle diverse epoche storiche della vita della Chiesa. Ma che la prossimità di Dio sia tutta contenuta nell’Incarnazione del Verbo e nella definitiva assunzione da parte del Figlio Eterno del Padre di un’integra natura umana è sempre stato il centro dell’annuncio cristiano, della vita stessa della Chiesa e la ragione ultima della sua azione sacramentale. Potremmo dire, in estrema sintesi che l’esperienza della misericordia, che richiama la prossimità di Dio, porta con sé l’annuncio dell’Incarnazione, che ha bisogno di essere sviluppato e tematizzato in chi ha fatto l’esperienza della misericordia.
Un altro aspetto che sintetizzi l’eredità del Giubileo Straordinario della Misericordia mi pare possa essere la riscoperta della centralità dell’umano come luogo dell’incontro con l’altro. Il Giubileo – e con esso le opere di misericordia corporale e spirituale, nella loro originale formulazione e in tutte le traduzioni attuali che se ne possono fare – ha tentato di aiutare l’uomo contemporaneo a volgere lo sguardo su se stesso, sulla verità profonda del proprio “io”, sui propri bisogni essenziali e, per conseguenza, sull’altro, inteso come fratello.
In un contesto spesso alienato, dove le persone sono ostaggio delle emozioni suscitate dai mezzi di comunicazione, nel quale la vita rischia di essere prigioniera del “non senso” e del funzionalismo efficientista e narcisistico, rimettere al centro l’uomo, con le sue reali esigenze, costituisce un grande servizio sia all’uomo, sia al suo cammino verso Dio.
Esiste, in tal senso, un antropocentrismo individualista profondamente falso, che guarda all’uomo come orizzonte ultimo e che mette al centro dell’essere e dell’operare i propri bisogni materiali, il proprio personale soddisfacimento orizzontale e, in definitiva, una incontrollata istintività che gli uomini chiamano “libertà”. Tale atteggiamento, in realtà, non mette l’uomo al centro, ma pone al centro la “scimmia dell’uomo”, una sua patetica riduzione animalesca, che ben poco ha a che fare con l’unica creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio.
Esiste, per contro, un sano antropocentrismo, nel quale l’uomo, nell’istante stesso in cui dice “io”, si riconosce di fronte alla realtà, dipendente da essa, in relazione con un Mistero che fa tutte le cose. Questa centralità dell’“io” permette all’uomo di leggere, nei propri stessi bisogni universali e infiniti di giustizia, bellezza, verità, amore e misericordia, una eco eloquente del suo essere in relazione con Dio.
Eredità, dunque, dell’Anno della Misericordia può essere considerato questo richiamo alla centralità dell’umano che, proprio perché costitutivamente aperto al Mistero, diviene il luogo dell’incontro con l’altro.
Anche l’attenzione ai poveri, così chiaramente indicata dalle parole e dai gesti di Papa Francesco, che ha indetto, nella sua Lettera Apostolica “Misericordia et misera” la Giornata Mondiale dei Poveri nella XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, è un’eredità del Giubileo da leggere nell’orizzonte di questa centralità dell’umano, per la quale nulla di ciò che è autenticamente umano è estraneo a Dio e nulla di ciò che è autenticamente divino è estraneo all’uomo. Anche in questo secondo aspetto, in questa seconda eredità del Giubileo, appare evidente la centralità del Mistero dell’Incarnazione, alla luce del quale e per il quale è possibile fare autentica esperienza della prossimità di Dio e vivere la giusta centralità dell’umano, che Dio ha voluto assumere e, così, salvare.
- Prospettive nella pastorale della Chiesa
Tra le possibili prospettive pastorali derivanti dall’eredità spirituale del Giubileo della Misericordia, mi sembra di poterne sottolineare tre, che sono comunque sintetiche e suscettibili di ampliamento e di integrazione.
- La prima potrebbe essere la chiamata ad una conversione missionaria della nostra pastorale. Non si tratta tanto di “inventare cose nuove”, quanto di concepire ogni gesto, dal più semplice saluto ad un fedele incontrato, fino alla celebrazione dell’Eucarestia, culmine e fonte dell’intera vita cristiana, come occasione perché l’altro incontri Colui che noi abbiamo incontrato: Gesù Cristo.
Vivere una pastorale missionaria significa andare verso l’altro, non a mani vuote, ma consapevoli che, in tutto il nostro limite, in forza del Battesimo, siamo stati resi testimoni di Cristo e, nel popolo santo di Dio, alcuni di noi, per l’Ordine sacro ricevuto, sono stati resi ministri, cioè servi della Sua Grazia.
Una pastorale autenticamente missionaria non si preoccupa solo dell’annuncio, per quanto curare la predicazione sia un elemento costitutivo ed indispensabile di tale momento. Una pastorale autenticamente missionaria non può fermarsi al modello kerygmatico, incurante di tutto il sostegno del quale la libertà dell’uomo ha bisogno, per accogliere l’annuncio. Fermarsi semplicemente al modello kerygmatico significherebbe non portare il peso integrale dell’uomo, non essere disposti a condividere la fatica del credere e la progressività dell’itinerario di fede, che, se non è mai esaurito in questa fase terrena della nostra esistenza, tuttavia domanda uno speciale accompagnamento, soprattutto nei primi passi.
Quando nel Credo diciamo la Chiesa Apostolica e Cattolica, noi imploriamo dal Signore la continua conversione del nostro agire pastorale, perché ogni gesto, a partire dai sette solenni gesti sacramentali, abbia come orizzonte la salvezza dell’uomo e, in essa, l’elemento costitutivo è rappresentato dall’incontro personale e comunitario con il Mistero.
Una pastorale missionaria è una pastorale, nella quale gli attori dell’agire pastorale non sono semplicemente gli “addetti ai lavori”, ma ciascun membro della Comunità, semplicemente in forza del Battesimo ricevuto, è capace di annuncio, è capace di apostolato, è capace di ripetere quel “Vieni e vedi” dal quale tutta la vicenda cristiana ha avuto inizio.
Le nostre strutture, talvolta elefantiache e farraginose, rischiano di soffocare questa libertà dello Spirito e questa ardente missionarietà dei battezzati. Se è vero che lo Spirito è Spirito di ordine e non di confusione, se è vero che un coordinamento dell’agire pastorale può avere un suo significato, ciò non può mai coincidere con il soffocamento dello Spirito e con quel moto che esso suscita nell’andare verso l’altro perché l’altro incontri il Signore. È il ripetersi fino alla fine dei tempi della corsa dell’Apostolo Andrea, che dopo l’incontro con Gesù tornò dal fratello Simone, dicendo: «Abbiamo incontrato il Messia!» (Gv 1,41).
Questa mi sembra la prima urgente prospettiva pastorale dell’Anno della Misericordia; se tutti coloro che hanno fatto esperienza della misericordia giungessero umilmente a proclamarla e a testimoniarla, l’evangelizzazione sarebbe cosa fatta! Perché ciò non avviene? Forse perché l’autentica esperienza della Misericordia è qualcosa di più complesso, di più articolato, di esistenzialmente radicale e dunque bisognoso di ben più attenta maturazione, dei semplici slogans proclamati e ripetuti. Soprattutto, l’esperienza della misericordia tocca talmente la propria libertà, che ben difficilmente può essere un’esperienza collettiva o di massa.
In un tempo come il nostro, nel quale non ci si concepisce più come popolo e nel quale l’appartenenza è una categoria vista con sospetto, perché interpretata come esclusione dell’altro, la misericordia è necessariamente un’esperienza personale che si riverbera, secondariamente, nelle relazioni sociali, ma che non sussiste se non come esperienza dell’“io” abbracciato da Dio.
- In questo contesto – e passiamo alla seconda prospettiva pastorale – riemerge quanto accennavamo poc’anzi: la centralità dell’umano e la riscoperta dell’uomo come luogo dell’incontro con Dio.
Se mi chiedessero di indicare tre urgenze della pastorale della Chiesa, io direi, anche alla luce dell’Anno Giubilare appena vissuto, che le tre urgenze sono: formazione, formazione e ancora formazione. Un cristiano formato, plasmato dalla Grazia, il cui cuore è scolpito dalla preghiera e dal diuturno dialogo con Dio, dall’ascolto delle Sacre Scritture, dalla conoscenza della vera storia della Chiesa e della sua Tradizione teologica, del suo Magistero autentico ed ininterrotto e dalla esperienza dei suoi Santi, è un cristiano capace di rendere ragione della speranza che è in lui, di rendere ragione della propria esperienza di salvezza e di misericordia.
In tal senso, la misericordia senza ragione rischia di ridursi ad un’esperienza sentimentale, non comunicabile, perché non realmente giudicata ed assimilata. Al contrario, l’esperienza della misericordia unita alla tematizzazione di ciò che essa davvero è e significa diviene fattore propulsivo per un’autentica evangelizzazione.
La seconda prospettiva pastorale è, dunque, quella della formazione, perché la Misericordia non rimanga una parola vuota nè sia una esperienza sentimentale, ma sia conosciuta, esperita per ciò che essa davvero è: il curvarsi di Dio sulla nostra debolezza, fino a mandarci il Suo Figlio morto per i nostri peccati e risorto per donare a noi la vita eterna.
III. La terza ed ultima prospettiva dell’Anno della Misericordia mi pare essere l’esigenza di una rinnovata urgenza personale ed ecclesiale: quella della fedeltà.
La fedeltà non è soltanto la coerenza, ma è molto di più. La coerenza potrebbe essere assimilata alla sincerità: è sincero colui che dice ciò che davvero pensa, è coerente colui che agisce secondo ciò che pensa. La fedeltà, invece, è molto di più; essa dipende dalla verità e dalla verità dell’uomo. Paradossalmente, si potrebbe essere sinceri ma non veri, coerenti ma non fedeli!
L’Anno della Misericordia apre la prospettiva pastorale di una più radicale fedeltà della nostra vita personale e della vita della Chiesa alla Divina Rivelazione. Fedeltà che si nutre della Grazia soprannaturale, fedeltà che è guidata dallo Spirito Santo e che necessariamente domanda la collaborazione della nostra libertà.
La fedeltà è un dono da implorare costantemente: quanto sarebbe utile, anche nelle nostre comunità, organizzare percorsi di preghiera, nei quali implorare il dono della fedeltà! Come tutte le realtà spirituali, implorando il dono, già esso ci è dato; mentre chiediamo al Signore il dono della fedeltà, già siamo più fedeli.
La fedeltà di cui parliamo è certamente una fedeltà inclusiva, una fedeltà che, proprio perché graniticamente legata alla Divina Rivelazione, è capace di dilatare lo sguardo fino ai confini del mondo, anzi, anche oltre il limite mondano, nell’unica comunione della Chiesa e dei suoi Santi. Tale capacità inclusiva della fedeltà sarà in grado di sostenere tutte quelle opere di carità, delle quali i nostri fratelli e noi stessi abbiamo bisogno, poiché nessuno è semplicemente oggetto della carità e nessuno è semplicemente soggetto della carità.
Nella circolarità ermeneutica, che l’Anno della Misericordia ci ha aiutato a riscoprire, sappiamo che, nell’istante stesso in cui compiamo un gesto di carità, materiale o spirituale, siamo noi stessi edificati da quella medesima carità, poiché la carità, che è il nome di Dio stesso, perché Dio è Carità, è una relazione capace di performare (cfr. Misericordia et misera), è una relazione capace di imprimere nell’essere di chi la vive la stessa forma di Cristo.
La Chiesa ha sempre vissuto, in tutti i tempi, questa dimensione e in non poche esperienze educative, soprattutto giovanili, l’esperienza caritativa accompagna quella spirituale e quella formativa, come un tutt’uno nel quale le tre dimensioni dell’agire della Chiesa, cioè la cultura, la carità e la missione sono saldamente unite come in un unico gesto.
Non sarebbe immaginabile aggiungere al precetto domenicale e festivo il precetto di un’ulteriore ora di volontariato settimanale per tutti i battezzati, anche perché significherebbe istituzionalizzare la libertà della carità e questo non è secondo il Vangelo. È tuttavia fuori di dubbio che la fede autentica domanda di esprimersi anche nella carità, domanda di vibrare in gesti concreti che della fede siano eloquente riverbero e quasi necessario sviluppo.
In tale senso, la terza prospettiva pastorale potrebbe essere quella di una rinnovata unità, di una rinnovata relazione tra fede ed opere, che altro non significa che una rinnovata fedeltà, sempre da implorare come dono.
Di tale fedeltà è splendido esempio la Beata Vergine Maria, che, per un singolare privilegio divino, ha offerto se stessa perché il Logos assumesse un’integra umanità. Ella è per questo Madre di Misericordia, perché Madre di Cristo, supremo gesto di Dio verso l’uomo. Ella è per questo Madre delle misericordie, cioè Madre di ogni gesto di misericordia, che, consapevolmente o no, si compie per Cristo, con Cristo e in Cristo, perché «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a Me» (Mt 25,40).