Card. Piacenza: “Confessione e comunione a Pasqua assumono valore esorcistico”

Il penitenziere maggiore insiste sull’importanza delle pie pratiche tradizionali durante la Quaresima e su come la grazia opera in modo potente nei giorni del Triduo pasquale

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La Quaresima è un periodo forgiato dalle pratiche del digiuno, della carità e della preghiera. Rinunce, sacrifici e partecipazione alla Via Crucis sono gli strumenti che il fedele imbraccia per preparare più degnamente il cuore alla Pasqua, per partecipare alla salvezza che Cristo ci ha donato gratuitamente.
Per comprendere il senso profondo dei nostri gesti quaresimali e per viverli in modo più consapevole, ZENIT ha intervistato il card. Mauro Piacenza, penitenziere maggiore, preposto alla Penitenzieria Apostolica, il più antico dicastero della Chiesa Cattolica. Il porporato sottolinea l’importanza delle pie pratiche tradizionali nel tempo di Quaresima, nonché il valore della confessione e della comunione nei giorni santi del Triduo pasquale.
Proprio nel periodo della domenica delle Palme e della Pasqua, sono molti tra i “poco praticanti” che si avvicinano ai sacramenti. “Certamente questa è ancora un’eredità dell’antica formazione dottrinale, secondo la quale era necessario confessarsi almeno una volta l’anno e comunicarsi almeno a Pasqua”, spiega il card. Piacenza. Che aggiunge: “In un contesto ancora culturalmente del tutto cristiano, erano certamente indicazioni utili. Oggi si tratta di comprendere l’enorme distanza che può crearsi tra fede e vita e, non sprecando queste occasioni tradizionali di riavvicinamento, trasformarle in ‘nuove partenze’ per la fede”.
Del resto – osserva il porporato – “la Confessione sacramentale è la sola vera ripartenza per ciascuno di noi”, perché “in ogni confessione il battezzato viene interiormente rinnovato, e la sua vita spirituale riparte, con tutti gli infiniti doni di grazia, che il Sacramento porta”.
Confessione e comunione pasquale sulle quali la Chiesa insiste in particolare durante la Quaresima e il tempo di Pasqua, che è  nell’anno liturgico “il centro della nostra fede”. Spiega il card. Piacenza: “Il fatto della Risurrezione di Gesù, della quale gli Apostoli sono testimoni e non certamente creatori, è alla radice dell’esistenza stessa del cristianesimo e solo alla luce della risurrezione si comprende l’identità divina di Gesù ed il mistero dell’Incarnazione del Logos”.
Il penitenziere maggiore rileva che “questa centralità è sottolineata, da ben prima del Concilio Vaticano II, dall’invito a partecipare alla passione di Cristo attraverso la penitenza personale, a lasciarsi ‘lavare’ dal sangue dell’Agnello, nel sacramento battesimale della riconciliazione, che dalla Croce scaturisce, ed a partecipare, perciò, alla Santa Messa, alla festa di nozze dell’Agnello”.
Infatti – aggiunge – “la confessione e la Santa Comunione hanno sempre uno straordinario valore capace di rinnovare l’uomo, ma celebrate a Pasqua hanno un valore spirituale e liturgico oggettivamente più evidente e, mi si permetta, anche un valore esorcistico”.
Il card. Piacenza osserva d’altronde che “tutti i sacramenti sono anche ‘grandi esoercismi'” ed anzi, ” dogmaticamente parlando, gli esorcismi, come le benedizioni, sono dei sacramentali, che prendono forza solo dai sette sacramenti, i segni efficaci istituiti da Cristo, in modo diretto o tramite gli Apostoli, per prolungare la Sua presenza salvifica attraverso la Chiesa, fino alla fine della storia”.
Egli afferma che “il peccato mortale è sempre una schiavitù, ed ogni volta che il sacerdote pronuncia la formula di assoluzione, il fedele è liberato dalla morsa del maligno e reintrodotto nella comunione piena con la vita trinitaria”. Di qui la sua considerazione: “Ogni confessore che abbia un po’ di esperienza, sa bene quanto si paghino, spiritualmente parlando, certe confessioni e come, proprio nei giorni santi del Triduo pasquale, la grazia operi potentemente ed il demonio sia, altrettanto potentemente, ancora sconfitto”.
Il card. Piacenza si sofferma inoltre sull’importanza delle “devozioni quaresimali”. Egli sottolinea: “I termini ‘devozione’ o ‘devozionale’ hanno subìto un oggettivo svilimento nella comunicazione, sia pubblica sia ecclesiale, degli ultimi decenni. Essi fanno pensare a qualcosa di ‘vecchio’, di non attuale e, soprattutto, di ‘formale ed estrinseco’, non corrispondente al cuore intimo della persona”.
In realtà, egli rileva che “la devotio latina era il rito con cui i generali offrivano, simbolicamente, la propria stessa vita, per la vittoria dell’esercito in battaglia. La devozione, o le devozioni, sono segni, talvolta semplici, attraverso i quali si può nutrire la fede. Come in un grande amore, non servono sempre proclami, ma i piccoli gesti quotidiani nutrono il rapporto, cosi accade con Dio. A condizione che Dio non sia ridotto ad un’idea o ad una morale, ma sia una persona viva e vera, con la quale relazionarsi. Per questo il disprezzo delle cosiddette ‘devozioni’, e soprattutto della devozione popolare, è sempre sospetto, perché potrebbe essere indice di una latente deriva gnostica, sempre possibile nel cristianesimo. È sempre bene stare lontani dagli ‘aristocraticismi’ religiosi”.
Ecco allora – prosegue il card. Piacenza – che “la Chiesa invita a compiere pii esercizi, come la Via Crucis, soprattutto proprio nel giorno di venerdì, il giorno della passione del Signore. Tali gesti, oltre ad essere vere e proprie soste che rinfrancano l’anima nel frenetico cammino delle nostre giornate, hanno lo scopo di esprimere la fede e di favorire l’immedesimazione, anche affettiva, con gli avvenimenti storici della salvezza e con i misteri che crediamo”.
Del resto – la riflessione del cardinale – “è un rischio gravissimo ridurre la fede a mera questione intellettuale, coinvolgendo solo un aspetto della vita dell’uomo. Come afferma sant’Agostino, nell’omelia 26 (Commento a Giovanni), la fede è un toccare e: ‘che significa toccare, se non credere?’, intendendo la necessità del coinvolgimento integrale dell’uomo, nell’atto di volontà della fede”.
Il card. Piacenza ritiene “tutti possibili gesti quaresimali, che sostengono la concretezza dell’atto di fede e ne corroborano l’oggettività” il digiuno, che coinvolge il corpo, la Via Crucis, che invita a camminare sulle orme del Signore, il silenzio, che permette al cuore di ascoltare davvero.
“Del resto, nel nostro tempo, fatto di comunicazione e di trionfo del coinvolgimento e dell’immagine – la sua considerazione – sarebbe ben strano che, proprio la fede, che ha una pretesa totalizzante, venisse ridotta a mero intellettualismo, o ad una malintesa dimensione privatistica o spirituale”.
Infine – commenta il penitenziere maggiore – “sono tutti gesti che favoriscono e nutrono un atteggiamento di profonda umiltà, cosi necessario all’uomo moderno, vittima del tecno-scientismo, e, comunque, a chiunque chieda perdono dei propri peccati e si accinga a celebrare il trionfo di Cristo sul male e sulla morte”. Le “pie pratiche devozionali” – conclude il card. Piacenza – “sono gesti d’amore semplici, possibili a tutti, che però dicono molto della nostra fede. Ed ogni grande amore, si nutre di piccoli gesti. Sono carezze a Gesù crocifisso”.

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Federico Cenci

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