Riportiamo il testo integrale della prima predica di Quaresima pronunciata oggi, 10 marzo 2017, da padre Raniero Cantalamessa ofmcap, predicatore della Casa Pontificia.
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Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della signoria di cristo
Egli mi renderà testimonianza”
Leggendo l’orazione colletta della Prima Domenica di Quaresima mi ha colpito quest’anno un dettaglio. In essa non si chiede a Dio Padre di darci la forza di compiere qualcuna delle opere classiche di questo tempo: digiuno, preghiera, elemosina; si domanda una cosa sola: di farci “crescere nella conoscenza del mistero di Cristo”. Credo che sia davvero l’opera più bella e più gradita al Salvatore ed è lo scopo a cui vorrei contribuire con le meditazioni quaresimali di quest’anno.
Proseguendo la riflessione iniziata nella predicazione dell’Avvento sullo Spirito Santo che deve permeare tutta la vita e l’annuncio della Chiesa (“Teologia del terzo articolo”!), in queste meditazioni quaresimali ci proponiamo di risalire dal terzo al secondo articolo del credo. In altre parole, cercheremo di mettere in luce come lo Spirito Santo “ci introduce alla piena verità” su Cristo e sul suo mistero pasquale, cioè sull’essere e sull’agire del Salvatore. Dell’agire di Cristo, in sintonia con il tempo liturgico della Quaresima, cercheremo di approfondire il ruolo che lo Spirito Santo svolge nella morte e nella risurrezione di Cristo e, dietro lui, nella nostra morte e nella nostra risurrezione.
Il secondo articolo del credo, nella sua forma completa, suona così:
“Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create”.
Questo articolo centrale del credo riflette due stadi diversi della fede. La frase “Credo in un solo Signore Gesù Cristo”, riflette la primissima fede della Chiesa, subito dopo la Pasqua. Quello che segue nell’articolo del credo: “Unigenito Figlio di Dio…” riflette uno stadio posteriore, più evoluto, successivo alla controversia ariana e al concilio di Nicea. Dedichiamo la presente meditazione alla prima parte dell’articolo “credo in un solo Signore Gesú Cristo”, e vediamo cosa il Nuovo Testamento ci dice intorno allo Spirito come autore della vera conoscenza del Cristo.
San Paolo afferma che Gesù Cristo viene manifestato “Figlio di Dio con potenza mediante lo Spirito di santificazione” (Rom 1, 4), cioè ad opera dello Spirito Santo. Arriva ad affermare che “nessuno può dire: Gesù è il Signore, se non nello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3), cioè grazie a una sua interiore illuminazione. Attribuisce allo Spirito Santo “la comprensione del mistero di Cristo” che è stata data a lui, come a tutti i santi apostoli e profeti (cf. Ef 3, 4-5); dice che i credenti saranno in grado di “comprendere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” soltanto se saranno “rafforzati dallo Spirito” (Ef 3, 16-19).
Nel vangelo di Giovanni, Gesù stesso annuncia quest’opera del Paraclito nei suoi confronti. Egli prenderà del suo e lo annuncerà ai discepoli; ricorderà loro tutto ciò che egli ha detto; li condurrà alla verità tutt’intera sul suo rapporto con il Padre e gli renderà testimonianza (cf. Gv 16, 7-15). Proprio questo anzi sarà, d’ora in poi, il criterio per riconoscere se si tratta del vero Spirito di Dio e non di un altro spirito: se spinge a riconoscere Gesù venuto nella carne (cf. 1 Gv 4, 2-3).
Alcuni credono che l’enfasi attuale sullo Spirito Santo possa mettere in ombra l’opera di Cristo, quasi che questa fosse incompleta o perfettibile. È una incomprensione totale. Lo Spirito non dice mai “io”, non parla mai in prima persona, non pretende di fondare una propria opera, ma fa sempre riferimento a Cristo. Lo Spirito Santo non fa cose nuove, ma fa nuove le cose! Non aggiunge nulla alle cose “istituite” da Gesù, ma le vivifica e le rinnova.
La venuta dello Spirito Santo a Pentecoste si traduce in una improvvisa illuminazione di tutto l’operato e la persona di Cristo. Pietro conclude il suo discorso di Pentecoste con la solenne definizione, oggi si direbbe “urbi et orbi”: “Sappia dunque con certezza, tutta la casa d’Israele, che Dio ha costituito quel Gesù che voi avete crocifisso, Signore (Kyrios) e Messia” (At 2, 36). A partire da quel giorno, la comunità primitiva cominciò a rileggere la vita di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione, in maniera diversa; tutto sembrò chiaro, come se un velo fosse caduto dai loro occhi (cf. 2 Cor 3.16). Pur vivendo gomito a gomito con lui, senza lo Spirito non avevano potuto penetrare nella profondità del suo mistero.
Oggi è in atto un riavvicinamento tra teologia ortodossa e teologia cattolica su questo tema del rapporto tra Cristo e lo Spirito. Il teologo Johannes Zizioulas, in un convegno tenutosi a Bologna nel 1980, da una parte esprimeva delle riserve sulla ecclesiologia del Vaticano II perché, secondo lui, “lo Spirito Santo veniva introdotto nell’ecclesiologia dopo che si era costruito l’edificio della Chiesa con il solo materiale cristologico”, dall’altra però riconosceva che anche la teologia ortodossa aveva bisogno di ripensare il rapporto tra cristologia e pneumatologia, per non costruire l’ecclesiologia solo su una base pneumatologica[1]. In altre parole, noi latini siamo stimolati ad approfondire il ruolo dello Spirito Santo nella vita interna della Chiesa (che è quello che è avvenuto dopo il Concilio) e i fratelli ortodossi quello di Cristo e della presenza della Chiesa nella storia.
- Conoscenza oggettiva e conoscenza soggettiva di Cristo
Torniamo dunque al ruolo dello Spirito Santo nei confronti della conoscenza di Cristo. Si delineano già, nell’ambito del Nuovo Testamento, due tipi di conoscenza di Cristo, o due ambiti in cui lo Spirito svolge la sua azione. C’è una conoscenza oggettiva di Cristo, del suo essere, del suo mistero e della sua persona, e c’è una conoscenza più soggettiva, funzionale e interiore che ha per oggetto quello che Gesù “fa per me”, più che quello che egli “è in sé”.
In Paolo prevale ancora l’interesse per la conoscenza di ciò che Cristo ha fatto per noi, per l’operato di Cristo e in particolare il suo mistero pasquale; in Giovanni prevale ormai l’interesse per ciò che Cristo è: il Logos eterno che era presso Dio ed è venuto nella carne, che è “una cosa sola con il Padre” (Gv 10,30). Per Giovanni Cristo è soprattutto il Rivelatore, per Paolo è soprattutto il Salvatore. Ma è solo dagli sviluppi successivi che queste due tendenze appariranno evidenti. Le accenniamo brevemente perché questo ci aiuterà a cogliere qual è il dono che lo Spirito Santo fa, in questo campo, oggi alla Chiesa.
Nell’epoca patristica, lo Spirito Santo appare soprattutto come garante della tradizione apostolica intorno a Gesù, contro le innovazioni degli gnostici. Alla Chiesa -afferma sant’Ireneo- è stato affidato il Dono di Dio che è lo Spirito; di lui non sono partecipi quanti si separano dalla verità predicata dalla Chiesa con le loro false dottrine [2]. Le Chiese apostoliche -argomenta Tertulliano- non possono aver errato nel predicare la verità. Pensare il contrario, significherebbe che “lo Spirito Santo, a questo scopo inviato da Cristo, impetrato dal Padre quale maestro di verità, lui che è il vicario di Cristo e il suo amministratore, sarebbe venuto meno al proprio ufficio” [3].
All’epoca delle grandi controversie dogmatiche, lo Spirito Santo è visto come il custode dell’ortodossia cristologica. Nei concili, la Chiesa ha la ferma certezza di essere “ispirata” dallo Spirito nel formulare la verità intorno alle due nature di Cristo, all’unità della sua persona, alla completezza della sua umanità. L’accento è dunque chiaramente sulla conoscenza oggettiva, dommatica, ecclesiale di Cristo.
Questa tendenza resta predominante, in teologia, fino alla Riforma. Con una differenza però. I dogmi che al momento di essere formulati erano questioni vitali, frutto di viva partecipazione, di tutta la Chiesa, una volta sanciti e tramandati, tendono a perdere mordente, a diventare formali. “Due nature una persona”, diventa una formula bell’e fatta, più che il punto di arrivo di un lungo e sofferto processo. Non sono certo mancate, in tutto questo tempo, splendide esperienze di una conoscenza di Cristo intima, personale, piena di calda devozione a Cristo, come quelle di san Bernardo e di Francesco d’Assisi; ma esse non influivano molto sulla teologia. Anche oggi di esse si parla nella storia della spiritualità, non in quella della teologia.
I riformatori protestanti rovesciano questa situazione e dicono: “Conoscere Cristo significa riconoscere i suoi benefici, non indagare le sue nature e i modi dell’incarnazione” [4]. Il Cristo “per me” balza in primo piano. Alla conoscenza oggettiva, dommatica, si oppone una conoscenza soggettiva, intima; alla testimonianza esterna della Chiesa e delle stesse Scritture su Gesù, si antepone la “testimonianza interna” che lo Spirito Santo rende a Gesù nel cuore di ogni credente.
Quando, più tardi, questa novità teologica tenderà, essa stessa, nel protestantesimo ufficiale, a trasformarsi in “morta ortodossia”, sorgeranno periodicamente movimenti, come il Pietismo nell’ambito luterano e il Metodismo in quello anglicano, per riportarla in vita. L’apice della conoscenza di Cristo coincide, in questi ambienti, con il momento in cui, mosso dallo Spirito Santo, il credente prende coscienza che Gesù è morto “per lui”, proprio per lui, e lo riconosce come suo Salvatore personale:
“Per la prima volta con tutto il cuore io credetti;
credetti di fede divina,
e nello Spirito Santo ottenni il potere
di chiamare mio il Salvatore.
Sentii il sangue d’espiazione del mio Signore
direttamente applicato all’anima mia” [5].
Completiamo questo rapido sguardo alla storia, accennando a una terza fase nel modo di concepire il rapporto tra lo Spirito Santo e la conoscenza di Cristo, quella che ha caratterizzato i secoli dell’Illuminismo, di cui noi siamo i diretti eredi. Ritorna in auge una conoscenza oggettiva, distaccata; non più però di tipo ontologico, come nell’epoca antica, ma storico. In altre parole, non interessa sapere chi è in sé Gesù Cristo (la preesistenza, le nature, la persona), ma chi è stato nella realtà della storia. È l’epoca della ricerca intorno al cosiddetto “Gesù storico”!
In questa fase, lo Spirito Santo non svolge più alcun ruolo nella conoscenza di Cristo; vi è del tutto assente. La “testimonianza interna” dello Spirito Santo viene identificata ormai con la ragione e con lo spirito umano. La “testimonianza esterna” è l’unica importante, ma con essa non si intende più la testimonianza apostolica della Chiesa, ma unicamente quella della storia, accertata con i diversi metodi critici. Il presupposto comune di questo sforzo era che per trovare il vero Gesù, bisogna cercare fuori della Chiesa, scioglierlo “dalle bende del dogma ecclesiastico”[6].
Sappiamo qual è stato l’esito di tutta questa ricerca del Gesù storico: il fallimento, anche se questo non significa che essa non ha portato anche molti frutti positivi. Persiste ancora, a questo riguardo, un equivoco di fondo. Gesù Cristo – e dopo di lui altri uomini, come san Francesco d’Assisi – non è semplicemente vissuto nella storia, ma ha creato una storia, e vive ora nella storia che ha creato, come un suono nell’onda che ha provocato. Lo sforzo accanito degli storici razionalisti sembra quello di separarlo dalla storia che ha creato, per restituirlo a quella comune e universale, come se si potesse percepire meglio un suono nella sua originalità, separandolo dall’onda che lo trasporta. La storia che Gesù ha iniziato, o l’onda che ha emesso, è la fede della Chiesa animata dallo Spirito Santo ed è solo attraverso di essa che si risale alla sua fonte.
Non è esclusa con ciò la legittimità anche della normale ricerca storica su di lui, ma questa dovrebbe essere più consapevole del suo limite e riconoscere che non esaurisce tutto quello che si può sapere di Cristo. Come l’atto più nobile della ragione è riconoscere che c’è qualcosa che la supera[7], così l’atto più onesto dello storico è riconoscere che c’è qualcosa che non si raggiunge con la sola storia.
Al termine della sua opera classica sulla storia della esegesi cristiana, Henri de Lubac arrivava a una conclusione piuttosto pessimistica. Mancano a noi moderni, diceva, le condizioni per poter risuscitare una lettura spirituale come quella dei Padri; ci manca quella fede piena di slancio, quel senso della pienezza e dell’unità delle Scritture che avevano essi. Voler imitare oggi la loro audacia nel leggere la Bibbia sarebbe un esporsi quasi alla profanazione perché ci mancano lo spirito da cui scaturivano quelle cose [8]. Tuttavia egli non chiudeva del tutto la porta alla speranza; in un’altra sua opera dice che “se si vuole ritrovare qualcosa di quello che fu, nei primi secoli della Chiesa, l’interpretazione spirituale delle Scritture, bisogna riprodurre anzitutto un movimento spirituale” [9].
Quello che il de Lubac notava a proposito della intelligenza spirituale delle Scritture, si applica, a più forte ragione, alla conoscenza spirituale di Cristo. Non basta scrivere nuovi e più aggiornati trattati di pneumatologia. Se manca il supporto di una vissuta esperienza dello Spirito, analoga a quella che accompagnò, nel IV secolo, la prima elaborazione della teologia dello Spirito, quello che si dice rimarrà sempre all’esterno del vero problema. Ci mancano le condizioni necessarie per elevarci al piano in cui opera il Paraclito: lo slancio, l’audacia e quella “sobria ebbrezza dello Spirito”, di cui parlano quasi tutti i grandi autori di quel secolo.
Ora proprio qui si è realizzata la grande novità auspicata dal Padre de Lubac. Nel secolo trascorso è sorto ed è andato sempre più allargandosi un “movimento spirituale” che ha creato le basi per un rinnovamento della pneumatologia a partire dall’esperienza dello Spirito e dei suoi carismi. Parlo del fenomeno pentecostale e carismatico. Nei suoi primi cinquant’anni di vita, questo movimento, nato (come il Pietismo e il Metodismo ricordati sopra) in reazione alla tendenza razionalistica e liberale della teologia, ha volutamente ignorato la teologia ed è stato, a sua volta, ignorato (e perfino ridicolizzato!) dalla teologia.
Quando però, verso la metà del secolo scorso, esso è penetrato nelle Chiese tradizionali in possesso di una vasta strumentazione teologica e ha ricevuto una accoglienza di fondo dalle rispettive gerarchie, la teologia non ha più potuto ignorarlo. In un volume intitolato La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito Santo, i più noti teologi del momento, cattolici e protestanti, hanno preso in esame il significato del fenomeno pentecostale e carismatico per il rinnovamento della dottrina dello Spirito Santo [10].
Tutto questo ci interessa, in questo momento, solo dal punto di vista della conoscenza di Cristo. Quale conoscenza di Cristo va emergendo in questa nuova atmosfera spirituale e teologica? Il fatto più significativo non è la scoperta di nuove prospettive e nuove metodologie suggerite dalla filosofia del momento (strutturalismo, analisi linguistica ecc.), ma è la riscoperta di un dato biblico elementare: che Gesù Cristo è il Signore! La signoria di Cristo è un mondo nuovo nel quale si entra solo “per opera dello Spirito Santo”.
San Paolo parla di una conoscenza di Cristo di grado “superiore”, o, addirittura, “sublime”, che consiste nel conoscerlo e proclamarlo proprio “Signore” (cf. Fil 3, 8). È la proclamazione che, unita alla fede nella risurrezione di Cristo, fa di una persona un salvato: “Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesú è il signore!’, e con il cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9). Ora questa conoscenza è resa possibile solo dallo Spirito Santo: “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3). Ognuno, naturalmente, può dire con le labbra quelle parole, anche senza lo Spirito Santo, ma non sarebbe allora la cosa grande che abbiamo appena detto; non farebbe della persona un salvato.
Cosa c’è di speciale in questa affermazione da renderla così decisiva? Si può spiegare la cosa da diversi punti di vista, oggettivi o soggettivi. La forza oggettiva della frase: “Gesù è il Signore” sta nel fatto che essa rende presente la storia e in particolare il mistero pasquale. È la conclusione che scaturisce da due eventi: Cristo è morto per i nostri peccati; è risorto per la nostra giustificazione; perciò è il Signore. “Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rom 14,9). Gli eventi che l’hanno preparata si sono come racchiusi in questa conclusione e in essa si rendono presenti e operanti. In questo caso la parola è davvero “la casa dell’essere”[11]. La proclamazione: “Gesù è il Signore” è il seme da cui si è sviluppato tutto il kerigma e l’annuncio cristiano successivo.
Dal punto di vista soggettivo – cioè per quello che dipende da noi – la forza di quella proclamazione sta nel fatto che essa suppone anche una decisione. Chi la pronuncia decide del senso della sua vita. È come se dicesse: “Tu sei il mio Signore; io mi sottometto a te, io ti riconosco liberamente come il mio salvatore, il mio capo, il mio maestro, colui che ha tutti i diritti su di me”. Io appartengo a te più che a me stesso, perché tu mi hai ricomprato a caro prezzo (cf. 1 Cor 6, 19 s.).
L’aspetto di decisione insito nella proclamazione di Gesù “Signore” assume oggi una attualità particolare. Alcuni credono che sia possibile, e anzi necessario, rinunciare alla tesi della unicità di Cristo, per favorire il dialogo tra le varie religioni. Ora proclamare Gesù “Signore” significa proprio proclamare la sua unicità. Non per nulla l’articolo ci fa dire: “Credo in un solo Signore Gesù Cristo”. San Paolo scrive:
“E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi, sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui” (1 Cor 8, 5-6).
L’Apostolo scriveva queste parole nel momento in cui la fede cristiana si affacciava, piccola e appena nata, su un mondo dominato da culti e religioni potenti e prestigiose. Il coraggio che occorre oggi per credere che Gesù è “l’unico Signore” è nulla in confronto a quello che occorreva allora. Ma il “potere dello Spirito” non è concesso se non a chi proclama Gesù Signore, in questa accezione forte delle origini. È un dato di esperienza. Solo dopo che un teologo o un annunciatore ha deciso di scommettere tutto su Gesù Cristo “unico Signore”, ma proprio tutto, anche a costo di essere “scacciato dalla sinagoga”, solo allora fa l’esperienza di una certezza e di un potere nuovi nella sua vita.
- Dal Gesú “personaggio” al Gesú “persona”.
Questa riscoperta luminosa di Gesù come Signore è, dicevo, la novità e la grazia che Dio sta accordando, nei nostri tempi, alla sua Chiesa. Io mi sono accorto che quando interrogavo la Tradizione su tutti gli altri temi e parole della Scrittura, le testimonianze dei Padri si affollavano alla mente; quando ho provavo a interrogarla su questo punto, essa restava pressoché muta. Già nel III secolo, il titolo di Signore non è più compreso nel suo significato kerigmatico; fuori dell’ambito religioso ebraico, esso non era così significativo da esprimere a sufficienza l’unicità di Cristo. Origene considera “Signore” (Kyrios) il titolo proprio di chi è ancora allo stadio del timore; ad esso corrisponde, secondo lui, il titolo di “servo”, mentre a “Maestro” corrisponde quello di “discepolo” e di amico [12].
Si continua certamente a parlare di Gesù “Signore”, ma esso è diventato un nome di Cristo come gli altri, anzi più spesso uno degli elementi del nome completo di Cristo: “Nostro Signore Gesù Cristo”. Ma un conto è dire: “Nostro Signore Gesú Cristo” e un altro dire: “Gesú Cristo è il nostro Signore!”. Un indice di questo cambiamento è il modo in cui veniva tradotto nella Volgata il testo di Filippesi 2,11: “Omnis lingua confiteatur quia Dominus noster Iesus Christus in gloria est Dei Patris”, “Ogni lingua proclami che il Signore nostro Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”. Ma un conto è dire “nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre” e un altro dire: “Gesù Cristo è il nostro Signore, a gloria di Dio Padre”. In questo modo, che è quello delle traduzioni oggi in atto, non si pronuncia soltanto un nome, ma si fa una professione di fede.
Dove sta, in tutto ciò, il salto qualitativo che lo Spirito Santo ci fa fare nella conoscenza di Cristo? Sta nel fatto che la proclamazione di Gesù Signore è la porta che immette alla conoscenza del Cristo risorto e vivo! Non più un Cristo personaggio, ma persona; non più un insieme di tesi, di dogmi (e di corrispettive eresie), non più solo oggetto di culto e di memoria, fosse pure quella liturgica ed eucaristica, ma persona vivente e sempre presente nello Spirito.
Questa conoscenza spirituale ed esistenziale di Gesù come Signore, non induce a trascurare la conoscenza oggettiva, dommatica ed ecclesiale di Cristo, ma la rivitalizza. Grazie allo Spirito Santo, dice sant’Ireneo, la verità rivelata, “come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” [13]. A uno di questi dogmi, quello che costituisce la seconda parte del nostro articolo del credo: “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”, dedicheremo, a Dio piacendo, la nostra prossima meditazione.
Non saprei indicare una risoluzione pratica da prendere al termine di queste riflessioni migliore di quella che si legge all’inizio dell’Esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium:
“Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui”.
[1] Cf. Johannes D. Zizioulas, Cristologia, pneumatologia e istituzioni ecclesiastiche: un punto di vista ortodosso, in “Cristianesimo nella storia” 2 , Bologna 1981, pp. 111-127.
[2] Cf. S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 1-2.
[3] Tertulliano, La prescrizione degli eretici, 28, 1 (CC 1 p. 209).
[4] F. Melantone, Loci theologici, in Corpus Reformatorum, Brunsvigae 1854, p. 85.
[5] Ch. Wesley, Inno “Gloria a Dio, lode e amore” (Glory to God and Praise and Love).
[6] Cf. A. Schweizer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, München 1966,II, pp.620 s.
[7] B. Pascal, Pensieri, 267 (ed. Brunschwicg).
[8] Cf. H. de Lubac, Eségèse médiévale, II, 2, Parigi 1964, p.79.
[9] H. de Lubac, Storia e Spirito, Roma 1971, p. 587.
[10]AA.VV, Erfahrung und Theologie des Heiligen Geistes, Monaco 1974 (trad. it. La riscoperta dello Spirito, Milano 1977); cf. anche Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, 2, Brescia 1982, pp. 157-224; J. Moltmann, Lo Spirito della vita, Brescia 1994; M. Welker, Lo Spirito di Dio. Teologia dello Spirito Santo, Brescia 1995, p. 17.
[11] È la famosa affermazione del filosofo Martin Heidegger nella sua Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995.
[12] Cf. Origene, Commento a Giovanni, I, 29 (SCh 120, p. 158).
[13] Cf. S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24,1.