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Luciano Canfora: "Riforma costituzionale? Una confisca della democrazia"

Il noto storico e filologo ritiene che la vittoria del Sì al referendum nuocerebbe alla sovranità nazionale a beneficio di Ue e Bce e accentuerebbe il distacco tra governanti e cittadini

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Si avvicina il 4 dicembre, giorno del referendum con cui gli italiani saranno chiamati a respingere o approvare la riforma costituzionale Renzi-Boschi.
Previsto in un primo momento ad ottobre, l’appuntamento con il seggio è stato posticipato di un paio di mesi dilungando una campagna elettorale che sembra ora infinita.
Ampio e variegato è il fronte di quanti si oppongono alla riforma e invitano a votare No. Sulla stessa barricata ideale si trovano fianco a fianco personaggi d’estrazioni politiche e culturali spesso agli antipodi.
Cosa li accomuna? La preoccupazione che la riforma possa minare ulteriormente la sovranità nazionale a vantaggio di organi sovranazionali e dell’alta finanza. Uno spaccato delle ragioni del No lo offre in quest’intervista a ZENIT Luciano Canfora, storico e filologo di fama, professore emerito all’Università di Bari.
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Professore, Lei si è più volte espresso per il No alla riforma costituzionale. Perché è contrario a una riforma che – parafrasando il presidente del Consiglio Renzi – comporterebbe “una semplificazione del sistema” e “ più stabilità e più forza all’Italia in Europa e nel mondo”?
E anche nella galassia! (ride ironicamente). Non è vero, non si tratta di una semplificazione. Nella legislatura attuale, che va avanti da circa tre anni, su 200 leggi, soltanto 5 hanno fatto la navetta parlamentare (il passaggio ripetuto tra Camera e Senato, ndr). Aggiungerei poi – dolorosamente – che ben prima dell’attuale Governo il decreto legge è stato usato in modo perentorio e, di fatto, ha abbreviato i tempi dell’attività legislativa. Pertanto dal punto di vista procedurale, la semplificazione non sussiste.
Sussiste invece una semplificazione economica?
Nemmeno. Non si risparmiano soldi eliminando 200 senatori. Il vero costo delle due Camere è rappresentato da tutto l’apparato, che va dagli uscieri agli impiegati amministrativi. È demagogico parlare di sfoltire il ceto politico, nella convinzione che quel tanto di qualunquismo diffuso nella coscienza delle persone comuni venga favorevolmente sollecitato. E poi non c’è bisogno di mandare a casa i senatori, basterebbe pagarli un po’ meno attenendosi magari agli standard degli altri Paesi europei.
Catastrofiche le previsioni del Financial Times e di Goldman Sachs in caso di vittoria del No…
Bisogna dire che dietro alcuni organi di stampa, sebbene di grande prestigio, ci sono anche pressioni, spesso soggettive. Le faccio un esempio d’attualità: Beppe Severgnini, un bravo giornalista italiano, è columnist del New York Times. Inevitabilmente le sue opinioni influenzano i lettori di questo giornale. Le faccio poi un esempio meno attuale e che riguarda interessi e influenze più ampie: senza dubbio fu strumentale la vibrante campagna mediatica che la stampa straniera operò contro Berlusconi nell’ultimo periodo del suo governo. La vittoria di Trump negli Stati Uniti deve però ricordarci che questi allarmi mediatici fanno parte di una dinamica da campagna elettorale e rientrano come nulla fosse a elezioni avvenute.
Lei ha detto in una recente conferenza che “le decisioni sull’economia sono prese in luoghi che non hanno il riscontro di un suffragio” e quindi che “la democrazia è stata confiscata”. La riforma costituzionale potrebbe aggravare una situazione che descrive già come estremamente critica?
La trasposizione in luoghi non elettivi delle decisioni importanti è un processo storico che dura da tempo. Le forme del potere effettivo, quello che ha le leve dell’economia tra le mani, si stanno dislocando “al riparo dal voto dei cittadini”, come auspicò del resto il presidente della Bundesbank. Il punto è che tale processo verticistico sarà ulteriormente accentuato se passa questa riforma, poiché al Senato arriverebbero direttamente le direttive dell’Unione Europea e della Banca Centrale Europea scavalcando la Camera. I margini di sovranità nazionale si ridurrebbero ancora. Ecco allora che la riforma costituzionale va messa in relazione con questo processo di confisca della democrazia.
Lei parla di sovranità nazionale. I fautori del Sì liquidano come populista chi usa certi argomenti…
In campagna elettorale, come ho accennato prima, si usano argomentazioni, spesso demagogiche, soltanto per sollecitare l’opinione pubblica. La mia esperienza mi induce a suggerire, provocatoriamente, che sarebbe meglio se si andasse a votare subito, senza dar spazio alla campagna elettorale, per cogliere cosa veramente pensano i cittadini. Ovviamente ciò non accadrà, quindi rassegniamoci a questo trionfo di promesse e demagogia.
Non crede però che la riforma del Senato darà, al contrario, più sovranità agli enti locali?
Per ottenere questo risultato non c’era bisogno di fare un marchingegno tortuoso che per giunta delega ai medesimi consigli regionali la scelta delle persone da mandare in Senato. Fermo restando che la norma della riforma in proposito è oscura, perché prevede che i consiglieri saranno eletti “in modo conforme alla volontà popolare”. Come si traduce questa affermazione in termini operativi resta però un mistero.
Con la riforma costituzionale salirebbero da 50 a 150mila le firme necessarie per proporre un ddl di iniziativa popolare e salirebbero da 500 a 800mila quelle per proporre un referendum. C’è un nesso tra queste proposte e le polemiche sul suffragio universale da parte di alcuni esponenti del mondo liberale a seguito della Brexit e dell’elezione di Trump?
È un’ipotesi ragionevole. Considerando quel processo di cui ho parlato sopra, che accentua il distacco tra governanti e cittadini, a mio avviso sarebbe bene mantenere il più possibile i presupposti per le iniziative popolari. Salvaguardiamo almeno questo livello di partecipazione diretta, che è anche un momento di pedagogia positiva, di approfondimento da parte del largo pubblico.
Anche Lei guarda con preoccupazione il combinato disposto riforma costituzionale/italicum?
La legge elettorale ultramaggioritaria (l’italicum dà un premio di maggioranza di 340 seggi su 630 alla lista che supera il 40%, ndr) è al limite del dispotismo, di dittatura di una minoranza.
Le chiedo una previsione: cosa fa Renzi se vince il No?
Ordina alla Boschi di dimettersi e lui rimane al suo posto.

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Federico Cenci

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