Era uno dei personaggi più schivi nel mondo della musica contemporanea e la sua scomparsa è stata un riflesso della sua vita. Nella discrezione e in punta di piedi, Leonard Cohen ci ha lasciati lunedì scorso, a Los Angeles, all’età di 82 anni ma la notizia è stata diffusa soltanto oggi, dalla sua etichetta discografica, la Sony Music, che non ha rivelato nulla riguardo alle cause della morte del grande poeta e cantautore canadese.
Un artista, la cui vastissima produzione letteraria e musicale, a dispetto del tocco lieve e sussurrato delle sue canzoni e dell’innata riservatezza del personaggio, ha suscitato parecchio ‘rumore’ per un cinquantennio. Non avevano bisogno di mastodontiche e roboanti promozioni i suoi dischi, raramente sono stati dei best seller, eppure hanno segnato circa tre generazioni, perché davvero parlavano da soli.
Nato a Montreal, il 21 settembre 1934 da famiglia ebrea, Cohen ha esordito nel mondo della letteratura, prima ancora che nella canzone: alla prima raccolta poetica Flowers for Hitler (1961), seguirono due romanzi, The Favourite Game (1963) e Beautiful Losers (1966), poi finalmente l’esordio discografico con Songs of Leonard Cohen (1967).
Cohen è stato testimone ed interprete, apparentemente cinico e distaccato, dei sogni e delle disillusioni della sua generazione. Troppo anziano per far parte della generazione del flower power e della contestazione studentesca, Cohen ne è stato tuttavia culturalmente coevo e ha espresso nelle sue liriche uno sguardo lungimirante, ai limiti del profetico, centellinando ogni singolo aspetto della vita privata e pubblica della sua epoca, e trasformandolo in vibranti emozioni musicali.
Non c’è ambito dell’umano che non sia stato scandagliato dalle sue liriche struggenti e taglienti, dalle sue nenie malinconiche ed intelligenti, capaci di rilassare il cuore e svegliare la mente: l’amore e il sesso (Hey That’s No Way To Say Goodbye, Chelsea Hotel, Take This Longing, Dance Me To The End of Love), la guerra (The Partisan, Stories of the Street, There is a War), la libertà (Bird on a Wire), il viaggio (Suzanne, Song of Isaac), la solitudine (Teachers) la morte e il suicidio (One of Us Could be Wrong, Nancy, Who By Fire), la politica e i segni dei tempi (Democracy, The Future).
Della cultura ebraica che lo aveva permeato, Cohen aveva ereditato l’attitudine a porsi e a porre domande. “Chi dal fuoco / chi dall’acqua / chi di notte […] chi in un lento declino […] chi in una valanga […] chi per la sua avidità / chi per la sua fame […] potrei dire che sta chiamando?” (Who By Fire). La morte, la vita e il fine ultimo dell’esistenza erano sempre al centro di tutti i suoi testi, anche di quelli relativamente più leggeri.
Ossessionato dalla dialettica tra l’amore e la libertà, tra la solitudine e il protagonismo, tra il sacro e il profano, tra la passione e il sentimento, Cohen percepisce la presenza dell’assoluto come costantemente incombente, elevando e nobilitando ogni elemento della quotidianità: “Tra le noccioline e la gabbia […] tra il chiaro di luna e il viottolo / tra il treno e il tunnel / tra la vittima e la sua macchia / ancora una volta / ancora una volta / l’amore ti chiama per nome” (Love Calls You By Your Name).
La sua spiritualità lo portò ad esplorare tutte le tradizioni religiose, dal buddismo, cui fu attratto nella seconda parte della sua vita, al cristianesimo, di cui condivide la profonda simpatia per gli ultimi e gli sconfitti.
Grande è il fascino esercitato sull’ebreo Cohen da Gesù Cristo, del quale però non riesce a vedere nient’altro che un uomo: “E Gesù fu un marinaio / quando camminò sull’acqua / e trascorse molto tempo a osservare / dalla sua triste torre di legno / e quando seppe con certezza / che solo chi annegava poteva vederlo / disse: ‘tutti gli uomini saranno marinai / finché il mare li libererà’. / Ma lui stesso fu spezzato / ben prima che il cielo si aprì / dimenticato, quasi umano / ed è piombato nella tua saggezza come una pietra”. Eppure, riconosce il cantautore, “tu vuoi viaggiare con lui / vuoi viaggiare con lui ciecamente / e pensi che ti fiderai di lui ciecamente” (Suzanne).
In un altro brano, Cohen immagina di incontrare Cristo sulla via del Calvario e di domandargli: “Non odi la l’umanità per quello che ti ha fatto?”. E Gesù gli risponde: “Parla d’amore, non d’odio / questo devi fare / si fa tardi / ho poco tempo e sono solo di passaggio” (Passing Through).
Ma Cohen lo ricorderemo anche per come ha saputo magistralmente raccontare l’umanità e la fragilità delle grandi figure del Nuovo Testamento: in Song of Isaac racconta il mancato sacrificio del figlio di Abramo come la metafora di una generazione matura che immola sugli altari quella più giovane, come avveniva alla fine degli anni ’60 con la guerra in Vietnam.
In Hallelujah, il capolavoro più noto di Cohen, la perdita della grazia di Re Davide, il suo degrado dalla bellezza divina a quella umana e muliebre, è visto come l’intonazione del medesimo salmo dalla stessa cetra ma in una tonalità più malinconica, con tutto il senso dell’amara caducità delle passioni terrene.
I personaggi che emergono tra le liriche criptiche e profonde – eppure irresistibili – di Cohen sopravvivranno alla scomparsa del loro autore e vivono tra noi, come lo specchio dolceamaro di qualsiasi esistenza.
Takahiro Kyono (Wikimedia Commons)
Leonard Cohen: un ebreo affascinato da Cristo
Scompare a 82 anni, il cantautore e poeta canadese, testimone inquieto e amaro delle contraddizioni di una generazione. Ha cantato le gesta dei protagonisti delle Sacre Scritture in tutta la loro umanità e fragilità