Andrea Mantegna (1431 – 1506) / Wikimedia Commons - www.mini-site.louvre.fr, Public Domain

La resurrezione che brucia la morte e il peccato

Commento al Vangelo di domenica 6 novembre 2016 – XXXII settimana del Tempo Ordinario

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La risurrezione è certa perché esiste un “altro mondo” che si rivela in coloro che “ne sono giudicati degni”: la vita soprannaturale che in loro si manifesta ne è la garanzia; un uomo il cui corpo non è più schiavo della concupiscenza, ad esempio, è come una primizia della resurrezione: quel corpo ha già conosciuto qui sulla terra una forza capace di strapparlo alla corruzione.
Per annunciare la resurrezione Gesù insegna storia perché è in essa che Dio si rivela e depone i semi della risurrezione: Egli ricorda i memoriali legati ai Patriarchi, e, in modo particolare riconduce i sadducei all’alba della Pasqua, profezia di quella che Lui avrebbe vissuto nella sua morte e risurrezione.
E giunge al mistero del roveto ardente, immagine della sua vita che non ha subito la corruzione nelle fiamme degli inferi. E qui vi trova la risposta per i sadducei, perché “non osino più” mettere in dubbio il destino di resurrezione che attende ogni uomo. La loro domanda, infatti, è una traduzione della domanda di Mosè: “Chi sei?”. In quel roveto che non si consuma appare la risposta: Io sono colui che sono. La resurrezione non è un’ipotesi, una speculazione, è Dio che si rivela a Mosè, ardendo in un amore che non si consuma, ma brucia la morte e il peccato.
La resurrezione è quel Rabbì che avevano di fronte, nel quale appariva ai loro occhi l’Eterno incorruttibile in una carne del tutto simile alla loro. Chi poteva avere tanto potere da liberare gli Ebrei, quel manipolo di poveri uomini dal giogo di ferro del Faraone, più potente dei re della terra? Allo stesso modo, “nella resurrezione, chi sarà il marito” di una donna che ne ha avuti sette, in virtù della legge del levirato che doveva garantire una discendenza? La risposta è identica: Io sono colui che sono ha il potere di liberare gli schiavi del Faraone e quelli sottoposti agli angusti confini della carne.
Lui è Dio, Lui è Kyrios: Gesù Cristo è il Signore! Non a caso vi è un uso profano del termine Kyrios che indica anche il marito. È Lui il marito autentico, non c’entra nulla la successione dei sette mariti avuti in terra. Che cos’è un matrimonio se non un raggio dell’amore che vi è tra Cristo e la Chiesa e che tocca la vita delle persone? Ogni matrimonio riflette il Cielo qui sulla terra, nel perdono che rivela l’amore infinito che unisce il Figlio al Padre!
Nella risposta di Dio a Mosè e in quella di Gesù ai sadducei non vi è né passato né futuro, solo il presente eterno reso possibile da Cristo che ha sconfitto la morte e il peccato ed è risuscitato.
Gesù è stato giudicato degno dell’altro mondo per essersi umiliato sino alla morte di croce, per non essersi difeso, per aver offerto la propria vita. È Kyrios perché ha amato sino alla fine. Come scrive S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo, “a coloro che lo hanno accolto (Gesù) ha dato il potere di divenire figli di Dio”,  “figli della risurrezione” nel Figlio che ha vinto la morte.
Essi partecipano ormai della natura e della vita divina, e sono qui in questo tempo e in questo mondo “giudicati degni di un altro mondo e della risurrezione dai morti”; vivono ogni relazione in modo diverso, celeste perché “sono uguali agli angeli”, anche se profeticamente e non ancora in pienezza: “hanno moglie come se non l’avessero… possiedono come se non possedessero, usano del mondo senza usarne appieno” .
Per questo Gesù dice che “non prendono moglie né marito”: nei loro peccati hanno visto già “passare la scena di questo mondo”, e sanno che, con la risurrezione di Cristo che li ha liberati, “il tempo si è fatto breve” come la distanza che ormai li separa dal Cielo. “Non possono più morire” e per questo non si difendono più come i figli di questo mondo, che afferrano cose e persone per stordire la paura della morte, tendendo così di allungare il tempo nell’illusione di allontanare la tomba.
In loro è vivo il “Dio dei vivi” che vuole trasfigurare anche la nostra carne incapace di andare oltre la biologia ferita dal peccato, come la donna data in sposa a sette mariti. Sette, come i peccati capitali, come gli sposi di Sara morti nella prima notte di nozze. Ma Gesù ha vinto il peccato e la morte e viene oggi ad unirsi a ciascuno di noi come Tobia: è Lui il Marito al quale siamo stati promessi sin dall’eternità.
Egli ha inaugurato per noi l’”ottavo” giorno, del quale con i sadducei di ogni tempo anche tutti noi, schiacciati nel dubbio di fronte al dolore e alla morte, non potevamo sospettarne l’esistenza. È vero, siamo schiavi di una carne incapace di andare oltre la biologia ferita dal peccato. Siamo noi questa sposa data in sposa a sette mariti: sette mariti, e nessun figlio. Siamo sterili, le tentiamo tutte, ma la vita ci scappa di mano. Il lavoro, il matrimonio, le amicizie, sono mariti incapaci di darci una discendenza, il sigillo dell’eternità, l’amore che sfugga alla corruzione.
Ma siamo chiamati a ben altro! La vita di Dio plana sulla terra e stravolge l’equilibrio precario dettato dalla corruzione figlia del peccato: possiamo vivere una vita feconda di frutti che rimangano, in un amore che, tra le fiamme della storia, non si consumi, e sia capace di perdonare. Esiste la risurrezione perché proprio noi “esistiamo per Lui”; in tutto si vede che il Dio dei vivi che è sempre con noi, come è stato nella storia della salvezza con Abramo, Isacco e Giacobbe, come ha soccorso e risuscitato il suo Figlio per fare della nostra storia un frammento dell’eternità.
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Antonello Iapicca

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