La ferita nel cuore d’Italia gronda ancora sangue. Le scosse che continuano a far vibrare la terra sotto ai piedi delle orgogliose popolazioni umbre e marchigiane dimostrano che la lacerazione è lungi dal rimarginarsi.
Gli scenari di polvere e macerie sono l’eloquente simbolo di un lutto. Tuttavia, ciò che i forti sussulti di terremoto del 24 agosto e di ottobre non hanno potuto far crollare è la pervicacia con cui la gente rifiuta di abbandonare la propria terra per trasferirsi in centri d’accoglienza lontani dall’epicentro sismico.
È la manifestazione concreta di quella stabilitas che fu alla base della civiltà cristiana forgiata con “la croce, il libro e l’aratro” da San Benedetto da Norcia. L’amor di patria, il legame con le proprie radici si esaltano allorquando persone giovani e anziane sono pronte a sfidare le calamità della natura pur di non tradire la propria terra evacuando in lidi più sicuri.
Se l’aratro consente di rendere la terra patria foriera di sostentamento alimentare, se dal libro deriva progresso scientifico ed artistico, la croce è l’offerta a Dio delle proprie azioni e il cemento della comunità. Quello religioso è dunque un aspetto preminente dell’Europa dei popoli. Lo stanno dimostrando gli abitanti di Spelonga, un piccolo centro situato sull’altura che fronteggia Arquata del Tronto, paese raso al suolo dal sisma di agosto.
Le vite di molti abitanti di questo borgo medievale sono state salvate dalla “Festa Bella”. All’alba del 24 agosto, quando la vicina Arquata era un enorme cratere che aveva inghiottito all’improvviso persone e abitazioni, si aggiravano tra polvere e macerie tanti giovani con le maglie celebrative di questa antica sagra popolare.
Al tremar della terra, alle 3 e 36 di quel mercoledì di fine estate, loro erano ancora in piazza a prender parte alla festa che ricorda la Battaglia di Lepanto. Secondo la tradizione, infatti, allo storico scontro che vide trionfare la Lega Santa contro l’impero ottomano, parteciparono tra le fila dei cristiani anche un centinaio di spelongani.
Si narra che essi si impossessarono di un vessillo strappato da una nave turca (una bandiera di stoffa rossa con tre mezzelune islamiche e una stella gialla) che riportarono nel borgo come trofeo di guerra. Lo storico ascolano Francesco Fabiani formula l’ipotesi che il contingente spelongano fosse parte di una più ampia divisione ingaggiata dai veneziani.
Ipotesi, appunto. Ma al di là dell’esatto svolgimento dei fatti, resta la memoria della Battaglia di Lepanto, tramandata nei secoli di generazione in generazione dagli spelongani e testimonianza del consolidamento storico e religioso di questa comunità.
Un legame che resiste anche al terremoto. Tra edifici lesionati e strade interdette, gli spelongani non hanno voluto rinunciare al proseguimento della commemorazione. Accampati vicino alle loro case, tra roulotte e automobili parcheggiate in spazi aperti, hanno deciso di proseguire gli appuntamenti della festa fino a quello culminante, il 7 ottobre, anniversario della vittoria di Lepanto del 1571.
A mantener viva la memoria di quell’evento, la Confraternita del SS. Rosario, che come ogni anno ha animato gli aspetti di pietà popolare della commemorazione. Rispetto al solito, tuttavia, in questa occasione gli spelongani non sono potuti entrare nella chiesa di Sant’Agata, dove all’interno di una teca vicino all’altare è custodito il drappo sottratto ai turchi. Il luogo è infatti pericolante.
I cittadini di Spelonga, riuniti in un albergo a Porto d’Ascoli lo scorso 2 novembre, hanno però deciso di chiedere alla Curia e ai carabinieri il recupero di quella reliquia. Il simbolo della loro identità locale e cristiana non può scivolare nell’oblio.
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Quel vessillo di Lepanto, simbolo di un'identità che resiste al terremoto
A Spelonga, borgo marchigiano colpito dal sisma, la popolazione chiede il recupero di un drappo turco che i loro antenati portarono da Lepanto nel 1571 come trofeo di guerra