In tempi di “Abbandoni”

L’utilitarismo spezza relazioni e favorisce abbandoni, ma il bene di molti continua a redimere la nostra umana oscurità

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Una certa cultura dei tempi moderni, soprattutto quella condizionata dall’utilitarismo,  non si è mai interessata né della cura né degli abbandoni né delle relazioni e l’educazione preposte a queste. Il filosofo Jean Jacques Rousseau affidò i suoi figli a un ospizio dopo aver umiliato la loro madre.
Tante le infanzie precocemente private del loro nucleo originario. Non solo madre e padre, ma anche lingua, luoghi, cugini e affini con cui spezzare la dipendenza della famiglia ristretta. Innumerevoli sono stati i neonati strappati alle cure della madre naturale dopo aver visto la luce per essere affidati a balie o sostituti materni dell’allattamento. L’alto tasso di mortalità infantile dei secoli passati dipendeva probabilmente anche dallo stato di abbandono e incuria a cui i nascituri andavano incontro, nell’essere allontanati dalle cure delle loro madri biologiche.
Il baliatico ha rappresentato fino a buona metà del secolo scorso una fonte di reddito per le donne dei ceti meno abbienti, ma anche un tacito e “legittimo” sistema di esclusione del nascituro all’interno della relazione coniugale. La donna liberata dall’incombenza della cura e dell’allattamento si rendeva sessualmente disponibile e prolifica secondo le esigenze del proprio uomo che doveva in maniera forzata e categorica assecondare.
L’antropologa Ida Magli nel suo ultimo importante libro “I figli dell’uomo” ci lascia in tal senso un testamento di autentica denuncia riguardo all’invisibile storia dei bambini. Basti pensare ai diecimila minori scomparsi, nella recente emigrazione e ben ventiseimila, arrivati in Europa senza la loro famiglia di origine. Una storia che ci rappresenta oggi come non mai attori nella nostra ignavia incurante.
Milioni sono le madri sacrificate sull’altare dell’economia utilitaristica imperante, i cui figli esautorati della loro presenza arrivano a tentare il suicidio. Secondo l’Unicef in Romania sono 350 mila i bambini che vivono con almeno uno dei genitori lontano da casa. Destini spezzati di cui vedremo i risultati tra cinquant’anni.
La riposta estrema alla paura di essere abbandonati, così radicata nel nostra memoria intrapsichica, comporta anche la furia omicida che funesta la nostra quotidianità.
Che la nostra sia una società narcisista, anche a causa delle dipendenza dai media e dai social, è fuori di ogni dubbio, ma aldilà della valutazione puramente sociologica ne esiste un’altra credo ancor più profonda.
Esistono subdole connessioni tra il fenomeno del narcisismo patologico, correlato alla “sindrome femminicida”, la cultura mediatica e il trauma abbandonico.  Connessioni, sostenute dalla ferocia di un sistema economico sempre più decorporeizzato, che alimenta  la virtual mind a caccia di cibo mentale e falsa moneta.
Ciò che manda in tilt il sistema psichico e spirituale è proprio la mancanza empatica di un riconoscimento di altro da sé, la perdita del senso del proprio vissuto relazionale, incapace di ammettere quanto faccia male la banalità del male.
Nelle culture matrifocali, quali quelle delle isole Trobiand, la scelta di colei che coordina e governa tutto il sistema, compreso quello della raccolta o delle relazioni interpersonali, viene fatta su un giudizio collettivo che premia e sceglie chi sa prendersi cura degli altri, più delle altre.
Tutto il gruppo è in grado di riconoscere chi sia in grado o no di assumersi tale responsabilità del potere in base alle sue qualità di dedizione al prossimo.
Le società matrifocali hanno messo la cura al centro delle relazioni anche politiche e decisionali, e hanno scelto di vivere la loro esistenza sulle forti basi della reciprocità condivisa. Una reciprocità oscurata e negata da quelli che sono oggi i poteri forti e gli stessi modelli pedagogici in merito. Attraverso una nuova pedagogia della cura, la cui radice trova il seme nei fondamenti dell’etica evangelica, si può inaugurare una vera e propria liturgia dell’azione, attraverso la cura della pedagogia.
Se il male è banale, come sottolinea la filosofa Hannah Arendt allora, il bene è eccezionale. Scrive la Arendt che “se guardiamo alla storia in termini di processo cronologico ininterrotto, la violenza sotto forma di guerra e rivoluzione può apparire come l’unica interruzione possibile.  Se fosse cosi, se soltanto la violenza permettesse di interrompere i processi pratici nel campo degli affari umani, se l’unica strada potessero averla i predicatori violenti, questi avrebbero già ottenuto dei punti a loro vantaggio, non è necessariamente così, non è solo la violenza che porta così in alto. Questa di interrompere il peggio è la funzione dell’agire, in quanto distinto da un puro e semplice meccanismo di comportarsi”.
Questa funzione dell’agire continua a redimere la nostra umana oscurità, ogni giorno. Ci redimono gli uomini in mare che raccolgono bambini come pesci dentro alle reti. Ci redimono coloro  che in preghiera trasformano il mondo in segreto, nel raccoglimento di una stanza solitaria  tutta per gli altri. Un lettino da campo trasformato in cella monastica. Un pezzetto di cielo in una biblioteca vivente.
Ci ha redento Etty Hillesum, che spezzò il suo corpo come fosse pane tra gli uomini della baracca del campo dove sarebbe andata a morire. Irena Sendler, per esempio, che strappò ai nazisti 2500 bambini, trafugandoli dal ghetto di Varsavia. Travestita da idraulico, li nascondeva nelle valige, nei sacchi da lavoro, nel portabagagli della sua macchina.
Li celava nei conventi, presso famiglie cristiane, nelle case di chiunque fosse disposto ad accoglierli. Di ogni creatura, Irena trascrisse il nome su un bigliettino nascosto in un barattolo e sepolto nel suo giardino. A fine conflitto riuscì a far ricongiungere numerose famiglie che dalla furia nazista erano state lacerate
“Inutile cercare la Ragione delle cose” scriveva Alda Merini.  Ma possiamo interrompere il peggio attraverso il nostro consapevole  agire. L’enciclica di Papa Francesco sulla custodia del creato  rimette al centro della vita il significato ontologico della cura. Un’ontologia della cura si fonda sull’attenzione e sul buono orientamento dello sguardo. Quello che potrà  guidare i nostri figli, ad una vera educazione sentimentale.
I maschi uccidono perché sono trattenuti dalle madri, dai nuclei simbiotici malati della loro infanzia, perché non sono stati lasciati liberi di andare verso un movimento maschile che richiede, la pratica della virtù e dell’intelligenza. I maschi che uccidono, sono gli stessi che fanno le guerre, che usano l’economia come un grande tavolo di gioco d’azzardo, che  condannano i figli a morte, sulle barche senza ritorno.
Sono loro che abbandonano e non accettano di essere abbandonati. Le donne uccise sono vittime del cattivo orientamento dello sguardo, che non si è curato della loro intera identità. Ma non dimentichiamo che il primo imprinting relazionale è quello materno, che condizionerà tutte le nostre scelte future. Favor, la bambina arrivata a Lampedusa ci è stata consegnata da sua madre, come preghiera di cielo e di carne.
Consegnare e abbandonare tracciano nella loro significante differenza  un solco profondo. Pietro Bartolo il medico che l’ha accolta fra le braccia, ma prima ancora, la donna sconosciuta che l’ha raccolta dalla stessa madre, continuano a raccontare una storia antica quanto il mondo: ovvero che se il male è banale allora il bene è eccezionale.
Che essere affidati non  significa  essere abbandonati e che spesso la fine delle relazioni segna sempre un passaggio di consegne a qualcosa che ci precede e ci attende come una promessa di un sommo Bene molto prossimo a noi.
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[Fonte: medicinaildegardiana.blogspot]

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Francesca Serra

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