E’ ovvio, ma forse non ci abbiamo mai riflettuto: a un funerale piangono i vivi e non i morti. Così, nel Vangelo di questa domenica, piuttosto che sul “figlio”, siamo chiamati a fissare l’attenzione sulla “madre”. E’ su di lei che Luca si sofferma dicendoci che “era rimasta vedova”; con lei era “molta gente della città”; è lei che Gesù “vede”; “per lei” è “preso da compassione”; a lei, per prima, si rivolge.
Quel figlio è parte della madre, il senso della sua vita, l’origine delle sue lacrime. Il figlio morto appartiene alla madre viva, come ogni opera delle nostre mani, pur destinata alla corruzione, ci appartiene in un intreccio misterioso nel quale è racchiusa l’esperienza dell’umanità: “La morte sovrasta l’esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta. La morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. L’esser-gettato nella morte si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia” (M. Heidegger, Essere e tempo).
Si tratta dell’emozione del corteo funebre giunto sulla porta di Nain, che significa “delizie”. Essa è, infatti, immagine dell’Eden, la città che Dio ha creato perché l’uomo gustasse le sue delizie. Ma “la morte vi è entrata per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap. 2,24). Così Nain è divenuta città dell’angoscia, conosciuta bene dagli ebrei: Egitto in ebraico significa proprio “angoscia, luogo dove l’uomo è definitivamente incastrato”.
Qui Israele aveva vissuto incastrato tra i mattoni che doveva fabbricare per il mausoleo al faraone. L’angoscia è la città di delizie trasformata nell’Egitto che viviamo ogni giorno: la famiglia, la scuola, il posto di lavoro, talvolta anche la parrocchia, ogni luogo ci riserva l’angoscia per “un’imminenza che sovrasta”. Viviamo nella paura della morte, e, per non accelerarne il corso, i pensieri, le parole e i gesti sono come distillati e “chattati” sulla tastiera di uno smartphone.
Viviamo come la madre che ha perso il suo “unico figlio”, accompagnando al cimitero l’unica vita ricevuta, dove regna il disordine morale, affettivo e sociale; qui abbiamo spesso gettato le nostre opere asservite al faraone – che in ebraico significa anche disordine – immagine del demonio. Tutto, nella città, ci è donato come primizia della Terra, per gustare le delizie dell’amore che sperimenteremo in Cielo. Ma il demonio ci ha ingannato, inducendoci a disobbedire per appropriarci dei doni di Dio. E ci siamo ritrovati nudi, nascondendoci impauriti, incapaci di amare, con la vita strappata dalle mani, come il figlio da quelle della madre.
Ma verso l’angoscia dove siamo immersi, cammina anche oggi Gesù, insieme ai “suoi discepoli” – la Chiesa – e “la grande folla” stupita e bisognosa – coloro che in Lui hanno visto qualcosa e lo seguono verso il Regno. Anche oggi Gesù si “reca” a Nain: ha un appuntamento con ciascuno di noi; forse, come “la madre”, non aspettiamo o chiediamo nulla, abituati ormai anche alle lacrime. Ma Gesù, il “grande profeta”, prende l’iniziativa e viene a “visitare il suo popolo”, quella parte di noi orfana di Padre, schiava e incompiuta perché senza identità, e l’eredità dilapidata; ci “vede” come una madre che ha concepito ogni cosa nel peccato e “piange” le sue opere precipitate nella morte.
E sulla “porta” che ci separa dagli inferi, dove non possiamo più nulla, “il Signore”, Dio stesso, “è preso da grande compassione per noi”. Di fronte al nostro fallimento, le viscere che ci hanno generato per l’amore e la vita eterna, esplodono sino a com-patire, a prendere su di sé la nostra morte. Da questo momento quel “figlio unico” è ormai una sola cosa con l’Unigenito Figlio di Dio.
A noi, madri vedove senza diritti, speranza e futuro, dice di “non piangere!”, invitandoci ad uscire da noi stessi, dall’uomo vecchio che, come la Maddalena, dinanzi al sepolcro, non può altro che piangere. No, sono possibili un altro discernimento e un altro atteggiamento. Di fronte al male, al peccato e alla morte c’è. Qualcuno che ha un gesto e una Parola che non conosciamo: Dio, il Santo e il Puro, è l’unico che può “avvicinarsi” e “toccare” la barella dove giace la nostra vita impura. Sulla Croce Gesù ha com-patito ogni nostro dolore sino a farsi peccato, “toccando” il nostro matrimonio, le parole e la sessualità, il fidanzamento, le amicizie, “avvicinandosi” come lo Sposo del Cantico dei Cantici ad ogni relazione con persone e cose, preparandole ad ascoltare la sua voce che annuncio la misericordia: “Ragazzo, dico a te, Alzati!”.
Sono piccole, povere, immature e fragili le nostre opere e, come il “ragazzo”, facili prede della morte. Ma proprio perché “giovani” e deboli, le opere della sposa raggiunte dalla Parola di Gesù possono accoglierne il potere fecondo e rigenerante: esso le “restituisce a sua madre” come frutti deliziosi della risurrezione di Cristo, trasformate in opere di vita eterna, perché dall’essere un corteo verso la morte, la nostra esistenza sia trasformata in un passaggio dalla schiavitù alla libertà, dal sepolcro alla vita.
Cimitero - Foto Copyright Pixabay CC0 - Unsplash, Public Domain
Dalla schiavitù alla libertà, dal sepolcro alla vita
Commento al Vangelo della X Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) — 5 giugno 2016