Il cielo può attendere

Il film indaga sui segreti della stabilità e felicità coniugale, costruita su una vita che scorre insieme impegnata nella cura dei figli e a superare i momenti di crisi

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Henry è morto a sessant’anni e ora si trova nell’anticamera dell’inferno, al cospetto di Lucifero. Con fare cortese il diavolo si scusa per non aver ancora potuto esaminare la sua pratica e quindi lo invita a raccontare lui stesso la sua vita, per comprendere se è più adatto ad “andare giù”, come Henry ritiene, oppure a “salire su” in Paradiso.
Henry racconta la sua storia di rampollo benestante di New York, viziato dai genitori, senza alcun altro interesse se non quello per le donne: un interesse che a un certo punto gli fa incontrare Martha, la donna che amerà per tutta la vita, anche se non perderà mai il vizio di apprezzare altre donne…

Il racconto di Henry a Lucifero inizia da quando, a 15 anni verso la fine dell’ottocento, aveva confidato all’istruttrice di francese il suo problema: avendo baciato una ragazza, ora era costretto a sposarla. La donna gli spiega che ormai già in Francia i costumi si sono evoluti: si può baciare una ragazza quante volte si vuole, senza l’obbligo di sposarla.

E’ uno dei pochi segni del passaggio del tempo presenti nel film; anche se il racconto abbraccia un arco di sessant’anni, durante i quali gli Stati Uniti dovettero superare la Guerra Ispano-Americana, la Prima Guerra Mondiale e la Grande Depressione,  è evidente che a Lubitsch non interessa quel tipo di evoluzione storica (notiamo che il tempo passa gradualmente solo per le mode degli abiti, le forme dei telefoni e la scomparsa dei familiari più anziani).

Ciò che cattura l’interesse del regista e che propone ai suoi spettatori è la vita all’interno di tre famiglie (quella di Henry e Martha e dei rispettivi genitori) e lo fa in modo originalissimo.

Se uno sceneggiatore moderno, nel raccontare la storia di tre generazioni, per mantenere alto l’interesse, finirebbe facilmente per caricare il racconto con eventi laceranti (tradimenti, separazioni, morti improvise, figli illegittimi), a Lubischt interessa esattamente l’opposto: indagare come queste tre famiglie restino unite nel tempo, curandosi delle cose più ovvie di una vita in comune: preoccuparsi di come crescono i figli e magari litigare su chi dei due, alla colazione del mattino,  potrà leggere  per primo il giornale, salvo poi trovare sempre un accordo.

C’è come un ritmo naturale della vita, senza drammi,  che Lubitsch sembra voler cogliere: i genitori invecchiano e poi scompaiono di scena semplicemente perché nella sequenza successiva non sono più presenti; i figli crescono e mostrano le stesse inquietitudini che hanno avuto da giovani i loro genitori.

Henry è il “peccatore”, colui che non ha mai perso il vizio di ammirare e corteggiare il gentil sesso (il film non chiarisce mai se ha realmente tradito sua moglie o se si sia limitato a corteggiamenti verbali) e per lui il modo migliore di morire è stato quello di uscire di scena in piena notte, quanto ha potuto esser accudito da un’infermiera decisamente più carina di quella, arcigna, del turno di giorno.

Ma la vita di Henry ha avuto i suoi momenti “alti”, trasfigurato dall’unica donna che ha contato nella sua vita:  Martha, colei che gli ha permesso di trascendere se stesso, le sue  debolezze e diventare marito e padre premuroso e mettersi sul serio a lavorare nell’azienda di suo padre. Ancora dieci anni dopo il matrimonio, quando lei minaccia di lasciarlo per un suo presunto tradimento, lui si atteggia a maschera tragica ma lei gli fa capire che ormai lo conosce troppo bene e i suoi trucchi non funzionano più. Si tratta di un magnifico dialogo coniugale che mostra la profondità della conoscenza reciproca che i due coniugi hanno raggiunto.

Anche se Martha, in un altro colloquio con un suo precedente spasimante, riconosce la validità della sua tesi: “il matrimonio non è fatto di emozioni. E’ l’adattamento pacifico ed equilibrato di due individui ben pensanti”, è pronta ad affermare che: “accanto a tanti giorni bui ci  sono stati giorni che poche donne hanno avuto la fortuna di vivere”. Sono proprio quei giorni che rivelano l’intesa raggiunta fra due persone non perfette ma che di sicuro si amano.

Una sequenza è particolarmente significativa: Henry, ormai anziano e vedovo, chiede al figlio il piacere di trovargli una lettrice: possibilmete giovane, che la sera gli legga qualche libro. Nel dire questo fruga casualmente nella libreria del salotto e trova quel libro che fu causa del primo incontro fra lui e Martha. Il suo volto si incupisce: non ci sarà nessun diversivo, nessuna lettrice carina che potrà colmare la mancanza di quell’unica donna che ha amato e che ora non c’è più.

Ovviamente ogni dialogo, ogni sequenza del film è cosparso del Lubitsch touch: uno stile svelto e scorrevole, con dialoghi spiritosi e sottilmente ironici. In realtà si tratta di uno stile che rappresenta una filosofia di vita. Una visione dell’uomo che trova il suo equilibrio in una amabilità di fondo nei confronti degli altri, un comportamento che non raggiunge mai certi eccessi a cui si unisce la  scelta artistica di non rappresentare mai il male e gli eccessi delle passioni, anche perché il male è brutto da vedere.

Lo stesso Lucifero ci appare come una persona cortese e comprensiva e fa presente al “candidato” Henry, per dimostrargli quanto sia brutto l’inferno, che laggiù non si ascoltano nè Beethoven, nè Bach nè Mozart: ciò è possibile soltanto in Paradiso.

Il film fu candidato al premio Oscar nel 1944 come miglior film ma per sua sfortuna in quello stesso anno fu presentato Casablanca.

Titolo Originale: Heaven Can Wait
Paese: USA
Anno: 1943
Regia: Ernst Lubitsch
Sceneggiatura: Samson Raphaelson
Produzione: FOX FILM CORPORATION
Durata: 112
Interpreti: Gene Tierney, Don Ameche, Charles Coburn, Marjorie Main, Laird Cregar
fonte: http://www.familycinematv.it/
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Franco Olearo

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