Chi salva un bambino, salva il mondo intero

“Voglio prendermi cura di te. Ragioni ed esperienze a favore della vita”: a Mestre un dibattito di alto profilo, che attinge a San Giovanni Paolo II e alla Genesi

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Voglio prendermi cura di te. Ragioni ed esperienze a favore della vita. Questo il tema del convegno che si è tenuto domenica 22 maggio a Mestre. I tre interventi che si sono succeduti hanno affrontato il tema della tutela della vita, ciascuno secondo l’ambito proprio dei relatori invitati.
La prima relazione è stata presentata da Stephan Kampowski, professore di antropologia filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma. La questione antropologica, dunque.
Perché difendere la vita? O meglio: perché la vita oggi deve essere difesa? Quali attacchi essa subisce e perché? A queste domande il prof. Kampowski ha inteso rispondere partendo dal numero 40 dell’enciclica di San Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae. In esso si legge: «Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell’uomo, nella sua coscienza. La domanda “Che hai fatto?” (Gen 4,10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l’esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita – della sua vita e di quella degli altri –, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre».
La vita, propria e altrui, si presenta alla coscienza di ognuno come un dono da custodire e promuovere. Perché allora Caino uccide il fratello? Caino è paradigma dell’uomo che cede alla tentazione di annientare una vita che così radicalmente gli somiglia. Egli ha vissuto un fatto che gli ha provocato una sofferenza: Dio ha rifiutato il suo dono, quello di Abele invece è stato accettato.
Tre sono state le interpretazioni presentate: la prima vede Caino come vittima, che sente di aver subito un’ingiustizia e di essere chiamato a porvi rimedio da sé, percepisce di essere solo davanti a Dio e agli uomini; nessuno può comprendere il suo dolore, deve cavarsela. Questa è la visione propria dell’antropologia liberale di Hobbes per cui homo homini lupus, ogni uomo è nemico per l’altro e dall’altro egli stesso deve difendersi. A questa impostazione si risponde – prosegue la relazione – con una chiara affermazione: «Ricordati della nascita», cioè ogni persona è costitutivamente legata al destino di altri, anzitutto a quello dei suoi genitori perché riceve la vita attraverso la loro vita: nessuno può dirsi originariamente solo. Questo è un primo elemento con cui Caino può opporsi alla tentazione di sentirsi minacciato dalla presenza del fratello.
Si aggiunga che, se io non sono originariamente solo, non lo è nemmeno chi mi sta vicino: accogliere i propri legami con gli altri è il primo passo per riconoscere che anche gli altri sono legati a noi, che la cura che si riceve è la stessa che ciascuno può offrire.
La seconda prospettiva dice: Caino uccide perché è persona di alta moralità e vuole eliminare l’ingiustizia e la sofferenza dalla Terra. E poco importa se per raggiungere questo obiettivo egli deve versare sangue, purché il mondo sia reso finalmente perfetto. Questa è la visione utopista, propria delle dittature del XX secolo così come della mentalità attuale per cui se un figlio è malato va abortito, se un anziano comincia a costare troppo va eliminato,…
A questo si lega una morale consequenzialista che misura la bontà delle azioni sulla base dei risultati che si vogliono raggiungere: agire bene significa poter migliorare il mondo e poiché la sofferenza intesa come limite dell’esistenza umana non racchiude alcun senso, eliminarla (anche eliminando le persone che soffrono) va nella direzione del miglioramento della vita umana sulla Terra. Che rispondere a questa impostazione? «Fai amicizia coi tuoi limiti» che sono i limiti di ogni essere umano, spiega il prof. Kampowski. L’universale si trova nel particolare: uccidere un uomo per odio al suo limite significa portare odio all’umanità intera perché nel singolo uomo è racchiusa l’umanità. In questo senso Madre Teresa di Calcutta diceva: «Chi salva un bambino, salva il mondo intero».
Si vuole aggiungere: se io mi scontro col limite altrui, anche l’altro si scontra con il mio. Forse che la soluzione consiste nell’eliminazione vicendevole? Piuttosto la possibilità che si ha di accogliere la malattia dell’altro significa che anche l’altro può accogliere la mia, il mio limite, la mia sofferenza. In questo si può sperimentare la solidarietà umana.
La terza interpretazione vede Caino difendersi dall’accusa di omicidio affermando di non aver ucciso nessuno poiché destinatario del suo atto non era una persona ma una cosa. Così l’operazionalismo, che identifica le persone con le loro operazioni: se sei in grado di provare sensazioni, se sei capace di pensare,… allora sei persona umana. Altrimenti no e io posso eliminarti perché non riconosco in te alcuna dignità di uomo e quindi non ti rispetto come tale.
Inserire criteri che definiscono l’essere umano significa che si può decidere chi lo è e chi non lo è. Ma su quali presupposti? Subentra l’arbitrarietà nella selezione di chi appartiene alla specie umana. Perciò la risposta a Caino operazionalista è «non definire il tuo fratello» perché la persona è più delle sue azioni. Solo Dio è atto puro. L’uomo invece ha bisogno di tempo per poter esprimere in atti le proprie capacità. Così l’embrione ha bisogno di tempo per formarsi nel grembo materno, l’infante ha bisogno di tempo per imparare a parlare, il giovane ha bisogno di tempo per arrivare a laurearsi o a imparare un mestiere.
La pazienza che la relazione di cura richiede dice qualcosa di importante sulle relazioni umane in generale: accogliere l’altro implica una capacità di attesa perché egli possa farsi conoscere per colui che è.
Infine, prendersi cura implica – da una parte – un bisogno da riconoscere e colmare e – dall’altra – la capacità di andare incontro a quel bisogno, legati tra loro dallo sguardo di chi vede nell’altro non un nemico ma un fratello.

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Elisabetta Bolzan

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