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Chiesa e comunismo, tra giustizia e perdono

Presentato alla Gregoriana con mons. Vasil il libro “La Chiesa Cattolica e il Comunismo in Europa Centro-Orientale e in Unione Sovietica”

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L’altro ieri, durante l’Udienza generale del mercoledì, Papa Francesco ha incontrato don Ernest Simoni, sacerdote albanese che ha passato 28 anni in prigione, dal 1963 al 1990, perseguitato dal regime comunista di Tirana per il solo fatto di essere un prete.
È stato un incontro intenso, i gesti emozionati del Pontefice hanno svelato una ferita ancora aperta sul corpo della Chiesa. Del resto non può essere dimenticato il dolore patito dai religiosi e anche da tanti fedeli nel corso dell’inquieto secolo scorso nell’Europa centro-orientale e nell’allora Unione Sovietica.
La figura di don Simoni è il paradigma di un’eroica perseveranza dei cristiani, che hanno finanche affrontato il martirio pur di non abdicare la loro fede dinanzi alla falce e martello. Esperienza di tal risma che ha vissuto sulla propria pelle mons. Cyril Vasil, slovacco, attuale segretario della Congregazione per le Chiese Orientali.
Ieri il presule è intervenuto alla Pontificia Università Gregoriana, in occasione della presentazione del libro La Chiesa Cattolica e il Comunismo in Europa Centro-Orientale e in Unione Sovietica (ed. Gabrielli – 2016), scritto da don Jan Mikrut, docente presso la medesima università.
Figlio di un sacerdote della Chiesa greco-cattolica slovacca, mons. Vasil ha conosciuto dentro le mura domestiche i patimenti della persecuzione comunista. La quale, nell’allora Cecoslovacchia, ha avuto il suo acme nel 1950, con la soppressione di tutti gli ordini religiosi.
Il giovane prete Cyril Vasil espatriò illegalmente nel 1987 dalla Cecoslovacchia, giacché le autorità negavano il permesso di lasciare il Paese. Su di lui andò a pendere una condanna a due anni di carcere, che cadde insieme alla fine del regime due anni più tardi.
Davanti agli occhi del segretario della Congregazione vaticana scorrono ancora le immagini di sofferenza provocata dal regime comunista. Episodi che tuttavia, ha riflettuto mons. Vasil, vengono percepiti dall’opinione pubblica occidentale in modo differente, più mite, rispetto a come viene percepita la dittatura nazista.
“Anche se sappiamo che il comunismo – l’osservazione di mons. Vasil – ha provocato più vittime e ha dimostrato una maggiore efficacia totalitaria essendo vissuto più a lungo”. Il presule spiega questa difformità di giudizio con il fatto che “in alcuni influenti ambienti certi strascichi ideologici esistono ancora”, perciò “questa storia si intreccia ancora con il presente”.
Una storia, appunto, iniziata con la fine della seconda guerra mondiale e sulla scia della ripartizione delle zone d’influenza decisa dai vincitori alla conferenza di Yalta. Mons. Valil ha spiegato che i regimi comunisti iniziarono subito a individuare la Chiesa cattolica come nemica, in quanto “rappresentante della fede, che supera la dimensione esclusivamente materiale dell’uomo”.
In tal contesto il prete era particolarmente sgradito. Il voto di castità che lo svincola dal legame familiare, il voto di povertà che lo rende incorruttibile e soprattutto l’obbedienza a Dio sono aspetti inconciliabili con l’appartenenza a un regime totalitario.
Mons. Vasil ha tracciato un univoco modus operandi delle autorità comuniste nei vari Paesi del Centro e dell’Est d’Europa. Anzitutto si procedeva con un’alienazione della Chiesa cattolica dall’opinione pubblica, presentandola come un’espressione della borghesia che si arricchiva sulle spalle del popolo, nonché come un’alleata “degli imperialisti guerrafondai occidentali intenti ad invadere il blocco socialista”.
Questo primo approccio era reso possibile attraverso “l’occupazione dei mezzi di comunicazione e dei mezzi di produzione”. Mons. Vasil ricorda che la Chiesa veniva privata di ogni possibilità di comunicare liberamente.
“C’era poi un aspetto esteriore di questa persecuzione – ha aggiunto il presule – che era la limitazione del culto”. Mons. Vasil ha spiegato che questo processo avveniva spesso in modo sottile: “dietro un’apparente libertà di esercitare il culto, si nascondeva una forte limitazione”. In che modo? “Attraverso azioni volte a intimorire il clero, favorendo ecclesiastici meno capaci o più conniventi, infiltrando agenti segreti sotto le spoglie di sacerdoti”.
La ferita aperta, prodotta dal comunismo alla Chiesa, suggerisce a mons. Vasil una domanda filosofica: “Quale rapporto deve esserci tra la giustizia storica e il perdono?”. Posto che “una sincera ammissione di colpa, nella percezione comune del popolo, non è avvenuta né in Europa occidentale né nei Paesi protagonisti di queste vicende”, non esistono i presupposti – secondo lui – “per un vero perdono”.
Quello di mons. Vasil “non è certo un richiamo ad essere vendicativi e sanguinari”, bensì la consapevolezza che “non può esistere misericordia e perdono senza giustizia”.
Per ricucire il rapporto tra questi due elementi, il presule ha ricordato la necessità di abbandonare i criteri squisitamente umani. “Chi è che traccia un asse cartesiano per stabilire dove finisce il male e dove comincia il bene?”, si è chiesto. “Se dovessimo considerare che è solo l’uomo che lo traccia – ha affermato – questo asse sarebbe fluttuante”.
Vacillazioni assai pericolose. Infatti “le filosofie che hanno dichiarato la totale autonomia dell’uomo e la sua presunta capacità di raggiungere ideali assoluti, o in nome di una classe sociale o in nome di un’appartenenza razziale, hanno portato l’umanità sull’orlo dell’abisso”, ha ricordato mons. Vasil. E i rischi sono presenti anche nella nostra epoca, giacché non mancano “tentativi di alterare l’antropologia umana per mezzo di eutanasia ed eugenetica”.
Di qui la sua osservazione per cui “la reale corrispondenza alla verità è fuori dalla nostra sola portata”. Risalire alle radici cristiane che affondano nelle terre dell’Est Europa può aiutare a comprendere e vivere questo assunto.
Vasil ha raccontato che San Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi, “portarono con sé il Vangelo e la legge”, il cui primo articolo dice che “prima di ogni diritto, occorre parlare del diritto divino”. Del resto, per poter colmare il nostro desiderio di giustizia, dobbiamo rivolgerci a quel Giudice che conosce il segreto dei cuori e che vuole portare alla riconciliazione. Solo così potremo rivolgere lo sguardo al passato dell’Europa centro-orientale senza patire del dolore di una ferita ancora aperta.

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Federico Cenci

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