Papa Francesco si recherà domani a Lesbo “per esprimere vicinanza e solidarietà” al popolo greco e ai numerosi profughi che sbarcano sulle coste di questa isola. Ma se c’è una crisi di migranti alle porte d’Europa, è perché il Medio Oriente resta in preda a conflitti rovinosi.
La testimonianza di quanto sta accadendo in quella Regione l’ha offerta oggi mons. Rabban al Qas, arcivescovo caldeo di Ahmadiya e Zakho, nel Kurdistan iracheno. Ospite di Aiuto alla Chiesa che Soffre, il presule ha incontrato i giornalisti presso la sede dell’Associazione Stampa Estera.
La sua diocesi è quella in cui è avvenuto il maggior afflusso di cristiani in fuga dalla Piana di Ninive e da Mosul occupate dai jihadisti dell’Isis. Mons. al Qas racconta di avere ancora impresse negli occhi le immagini di queste persone che hanno perso tutto, tranne la fede in Cristo.
Il prossimo giugno saranno passati due anni dall’ingresso dei terroristi islamici in quelle terre, il bilancio che bisogna trarne è impietoso. “Abbiamo perso la nostra storia, la nostra patria, direi la nostra vita”, commenta amaro il vescovo riflettendo sulla spoliazione dei cristiani dall’Iraq, dove sono un quarto in meno rispetto all’inizio della guerra.
È un po’ una storia che si ripete in quelle zone. Mons. al Qas riflette sui 3milioni di cristiani uccisi o costretti ad emigrare dalla Turchia a causa del genocidio armeno cent’anni fa. E, prima ancora, sulle fughe di massa seguite all’instaurazione dei primi califfati islamici, nel lontano VII secolo.
Il vescovo ritiene che alla base di ogni contesa ci sia l’intolleranza insita in alcune frange dell’Islam. “Gruppi come i Fratelli Musulmani, i wahabiti, i salafiti non accettano la convivenza da pari con altre comunità religiose”, spiega al Qas. Il quale avverte anche noi europei: “Non si respira tranquillità nemmeno qui da voi, come dimostrano gli attentati in Francia e in Belgio. Ho visto blindati dell’esercito nei pressi di San Pietro, perché l’obiettivo di questi gruppi è di espandersi e prevaricare ovunque”.
Non esita, l’arcivescovo caldeo, a definire la sharia “una malattia” per l’Iraq, per il Medio Oriente e per tutto il mondo. Crede pertanto che non possa esserci pace in quelle terre fin quando non si creeranno le condizioni per separare la religione dallo Stato. E per farlo, la soluzione proposta da mons. al Qas passa per l’educazione dei giovani.
“Dobbiamo cambiare la mentalità – dice – intervenendo nei programmi scolastici ed insegnando agli studenti che è la religione che deve servire l’uomo e non viceversa”. E che “vivere insieme è un bene”. Racconta a tal proposito la sua esperienza ad Ahmadiya, dove grazie all’organizzazione Mission de France “è stata costruita una grande scuola che ospita studenti di ogni confessione”. L’arcivescovo spiega che qui “ragazze con il velo vivono come amiche con le loro compagne di classe cristiane”, dimostrando di essere “apostoli della tolleranza e della convivenza”.
Se non verrà incoraggiato un lavoro di questo tipo, le fila di gruppi come l’Isis continueranno a gonfiarsi. Mons. al Qas punta l’indice contro Paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita, i quali “diffondono questa mentalità settaria” e possono incoraggiare i giovani a impugnare le armi in nome della religione.
Non risparmia critiche nemmeno all’Iraq. “Caduto Saddam Hussein, ci siamo illusi che sarebbe giunto finalmente un tempo di maggiore libertà – afferma -, ma invece il fanatismo è aumentato”. Ad esempio mons. al Qas spiega che a Baghdad (dove sono rimasti meno di 20mila cristiani su 7milioni e mezzo di abitanti) non sono ammessi matrimoni misti.
Parla poi della legge sull’islamizzazione dei figli, accusando il Governo di non aver ancora fatto seguire aperture concrete alla decisione del Parlamento, a novembre, di modificare l’articolo della Costituzione che impedisce ai figli di musulmani di poter cambiare religione.
Di qui il suo appello alla comunità internazionale e alla Chiesa a “fare pressione al Governo iracheno, senza limitarsi a una mera diplomazia basata sul rispetto”. Tuttavia mons. al Qas coltiva la speranza di un futuro migliore nell’anelito di libertà del popolo curdo.
“Saremmo più tranquilli se avessimo uno Stato del Kurdistan indipendente, ottenendolo non con la guerra ma attraverso un referendum”, ammette al Qas. Il quale sottolinea che “le porte del cuore e delle case dei curdi sono aperte a tutti i popoli”.
In ragione dell’influenza geopolitica dei Paesi vicini, appare però una chimera l’indipendenza del Kurdistan. “Niente è difficile in questo mondo”, risponde mons. al Qas. Che infine però precisa: “Dipende dagli interessi degli americani e degli europei…”.
Mons. Rabban al Qas - ZENIT FC
Mons. al Qas: "La sharia, malattia del Medio Oriente che può contagiare il mondo"
L’arcivescovo caldeo di Ahmadiya e Zakho ha raccontato la situazione che si vive in Kurdistan, dove arrivano moltitudini di cristiani iracheni che fuggono dall’Isis