La fiducia illimitata nella potenza della ragione e della parola che l’esprime è uno dei tratti caratteristici della mentalità illuministica della modernità: al culmine dell’esercizio del pensiero, superati gli oscurantismi del passato, la luce della ragione avrebbe realizzato il suo trionfo nella perfetta corrispondenza dell’ideale e del reale.
“Così, – scrive Hegel in una celebre pagina della Scienza della Logica – dissipate le tenebre, rimossa l’incolore cura di sé dello spirito rivolto a se stesso, l’esistenza parve essersi trasformata nel sereno mondo dei fiori, tra i quali, com’è noto, nessuno è nero” (Tomo I, Bari 1981, 4: traduzione modificata) .
Dove tutto è portato alla chiarezza dell’idea, ogni presunto “fiore nero” dell’eccesso del reale rispetto al razionale è ricondotto alla misura dell’idea e la parola – manifestazione compiuta della razionalità – assurge a uno sconfinato potere, ad un irresistibile fascino: nasce così – nel segno di Hegel e della sua multiforme eredità – il marcato “logocentrismo” della modernità.
Perciò l’ideologia moderna – in tutte le sue forme – si ubriacherà di parole e la parola, da strumento di sovversione e di cambiamento (“parole come pietre” al servizio della trasformazione rivoluzionaria, di destra o di sinistra), si andrà trasformando in mezzo di imbonimento e di inganno per nascondere il dissidio fra ideale e reale.
Di questo declino della parola è dimostrazione la retorica di tutti i totalitarismi prodotti dalla modernità. Non sorprende allora che il fallimento storico delle pretese totalizzanti della ragione abbia fatto riemergere la rilevanza di ciò che eccede la formulazione logica e verbale, quel “fiore nero”, che non dovrebbe esserci per la ragione totalizzante e che invece c’è: l’irrazionale, il notturno, il vitale inesprimibile, la morte.
L’affacciarsi del “fiore nero” nel tramonto delle “grandi narrazioni” ideologiche si coniuga perciò a un nuovo bisogno di silenzio, spazio aperto per l’invocazione e l’incontro con l’altro nell’ascolto.
La crisi del “logocentrismo” della modernità, caratteristica dell’inquieto post-moderno, viene a sfidare anche la tradizione ebraico-cristiana, marcata com’essa è dalla parola quale via privilegiata dell’auto-comunicazione divina: non è difficile cogliere come si tratti di una sfida tutt’altro che indifferente.
Come parlare del Verbo in un tempo stanco di parole, malato del loro sciupio nella comunicazione insignificante? come dire la Parola a una cultura segnata dall’abbandono delle certezze forti legate al “logos”, condannata – almeno in apparenza – alla rinuncia a ogni forza del dire, per risolvere la comunicazione in puro gioco di maschere e di convenzioni, che nascondono la solitudine dei frammenti e l’arcipelago delle disgregazioni?
Rispondere a queste domande in maniera responsabile significa farsi carico con nuova coscienza di un dato tanto originario, quanto paradossale: e cioè che proprio la religione della Parola sia, nel suo principio e fondamento, “appesa” al Silenzio…
Perciò, dire Dio è per la fede biblica compito al tempo stesso impossibile e necessario: impossibile per l’eccedenza dell’Oggetto; necessario per la sua indispensabile rilevanza in ordine al senso e alla speranza della vita degli uomini.
La parola teologica, nel suo esercizio più alto, sta allora sulla frontiera, continuamente rinviando da una parte alla fragile terra dove poggiano i nostri piedi, e dall’altra all’abisso insondabile, che è la regione del Silenzio.
Due movimenti l’attraversano, fra di loro totalmente asimmetrici: quello del pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare il cammino e combattere la lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l’altro esisterebbe, dell’Origine, inizio, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi nella Parola incarnata, muovendo dal Suo insondabile Silenzio…
Questo itinerario conduce verso gli spazi della “poesia”: come la teologia, la poesia educa ad ascoltare il Silenzio nelle parole e a far risuonare al di là di esse l’abissale Silenzio in chi ascolta. La poesia realizza anzi in maniera singolare la verità che sta al centro della teologia: quella contenuta nell’evento della morte e resurrezione della Parola venuta dall’eterno Silenzio di Dio.
La parola della Croce dichiara certo l’incompiutezza di ogni parola umana, se – per dirsi nella maniera più profonda – il Verbo ha scelto la morte di Croce: è in questa morte, però, che il Verbo tocca l’eloquenza più alta della Sua rivelazione.
“Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici” (Gv 15,13)! Morte della morte della parola è, analogamente, la poesia: consapevole o inconsapevole, essa, quando è, è questa trasgressione, questo morire della parola, perché la dimensione della Trascendenza venga ad affacciarsi in questa morte e da essa si sprigioni.
La poesia – al di là della stessa consapevolezza del poeta – è evento di una “kenosi” della parola, che ne trasmette il misterioso splendore…
Oltre il declino del senso della parola nella comunicazione verbale si offrono allora come possibile medicina dell’anima – pur nella diversità del loro statuto epistemologico – tanto la teologia, quanto la poesia, entrambe in ascolto del silenzio, entrambe testimoni di esso nella ineliminabile fragilità della parola, entrambe eco di un’altra Parola, di un altro Silenzio.
Forse perciò entrambe sono circondate da quell’aura di sospensione, quando non di sospetto, di cui rende ragione la costatazione realistica e amara di Martin Heidegger: “Può darsi che il linguaggio richieda, invece di un’espressione precipitosa, un giusto silenzio. Tuttavia chi di noi uomini d’oggi può immaginare che i suoi tentativi di pensare si trovino a proprio agio sul sentiero del silenzio?” (Lettera sull’umanismo, Torino 1975, 110).
Eppure, è sulla via dell’ascolto, è sui sentieri del Silenzio, che la Parola può nuovamente venirci incontro nel tempo della notte del mondo come evento che libera e salva: “Perché i poeti nel tempo della povertà?…
Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro” (M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, Firenze 1984, 249s)…
Voce poetica e voce teologica si rivelano entrambe evocative dell’indicibile Altrove, capaci di suscitarne la nostalgia e di farne pregustare l’inquietante, mortale, vivissima bellezza. Lo mostra, ad esempio, questa lirica di Renzo Barsacchi: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, / tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze” (Le notti di Nicodemo, Palermo 1991, 11).
Articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore, Domenica 3 Aprile 2016, pagine 1 e 15
Mons. Bruno Forte - Foto ©ZENIT
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