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La legge dell’amore

Una riflessione sulla recente sentenza del Tribunale dei minori di Roma, che ha autorizzato in via definitiva una coppia gay all’adozione di un bambino nato dall’utero in affitto

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«La centralità della nostra vita di donne è lo spirito della maternità. Questa maternità, però, va intesa in senso nuovo, ben al di là della mera capacità fisica di procreare. Si può infatti non aver generato ed essere colme di maternità, come si può essere madri biologiche ed esserne totalmente prive»
Ciò che Susanna Tamaro scrive in uno dei suoi libri ben fotografa il quadro che va delineandosi dopo il fiorire delle prime sentenze con cui i Tribunali, in via giurisprudenziale, stanno sostanzialmente introducendo nell’ordinamento italiano la stepchild adoption frutto di maternità surrogata, quest’ultima espressamente vietata dalla legge. È il caso della pronuncia per mezzo della quale, nei giorni scorsi, nel tentativo quasi ostentato di creare un precedente, il Tribunale dei minori di Roma ha autorizzato in via definitiva una coppia gay all’adozione di un bambino fatto nascere da uno dei partner ricorrendo all’utero in affitto in Canada.
Nel lavoro di riscrittura normativa intrapreso dai giudici manca però una considerazione fondamentale: essere madre o padre non è solo dare alla luce un figlio, ma anche assumersi la responsabilità di occuparsi di lui con generosità. Ben difficilmente, del resto, si cresce e si ha accesso alla propria umanità se manca il desiderio profondo di chi, diventato padre o madre, cerca di trasmettere il senso dell’esistenza. Per ogni donna, poi, il tema della fecondità è cruciale: che diventi madre o no, per stare bene con se stessa ella deve poter declinare nel mondo il materno, quella specificazione di sé che la porta ad avere capacità di accoglienza, di cura, di immaginazione concreta e creativa a favore dell’altro. È proprio qui il punto: tutte le donne, anche se sterili, sono potenzialmente capaci di grande fecondità se fanno fiorire il proprio sentimento di maternità nei diversi ambiti della vita, senza piegarsi agli stereotipi, mettendo l’altro al centro.  
Se questo ragionamento ha un senso, non può che ricavarsene l’illogicità, naturale e razionale, insita nella maternità in affitto. Che per provare a ribaltare critiche ed accuse assume, sul piano teorico e del diritto, le sembianze di un libero e consapevole dono tra adulti, tacendo del fatto che il regalo oggetto di scambio è in realtà una persona, il figlio che deve nascere. Non un rene o un pezzo di pelle, dunque, ma un figlio. Al contrario di ogni singolo organo titolare di una specifica e originale dignità e di una propria soggettività.
Insomma, maternità potrebbe anche voler dire, ad esempio, anche aprire il cuore e la vita a tutti quei piccoli già nati e che nessuno vuole, fanciulli che aspettano il dono di un amore che sa sceglierli, e che possono a loro volta essere dono, facendo germogliare la maternità e la paternità di adulti biologicamente sterili. È pure questa una legge, ma d’amore e basta. Solo osservandola si potrà riuscire nella missione descritta dallo scrittore William Harding Carter: «Ci sono solo due lasciti inesauribili che dobbiamo sperare di trasmettere ai nostri figli: delle radici e delle ali».

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Vincenzo Bertolone

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