Nel giorno della Resurrezione, il Pakistan sembra sprofondare di nuovo negli abissi dell’odio e della morte. A Lahore, nella regione centrale del Paese, un kamikaze si è fatto esplodere in un parco dove numerose famiglie stavano vivendo momenti di spensieratezza.
Il bilancio (purtroppo provvisorio) parla di 72 vittime, di cui 30 bambini, e di almeno 340 feriti. La maggior parte appartenenti alla comunità cristiana del Pakistan, 4% di una popolazione a preponderanza musulmana e per l’ennesima volta bersaglio di atroci attentati.
La mattanza ha alimentato un clima di tensione e di allarme. Ne parla, in un’intervista a ZENIT, Shahid Mobeen, docente di Pensiero e religione islamica presso l’Università Pontificia Lateranense, fondatore dell’Associazione Pakistani Cristiani in Italia. Egli sarà presente stasera, alle ore 20 presso la Basilica di Santa Maria in Trastevere, a Roma, per partecipare alla preghiera per la pace in Pakistan.
“Dopo l’attentato le minoranze religiose sono molto impaurite, a tal punto da avere difficoltà ad uscire di casa”, spiega, alla luce delle continue testimonianze telefoniche che sta raccogliendo dal suo Paese. Dalle parole di Mobeen traspare tutta la concitazione di chi è stato colpito nel vivo. Egli racconta che sua sorella si trovava a Lahore domenica scorsa. A lei e agli altri suoi familiari “è andata bene”, perché “sono rimasti a casa con i parenti”.
Sembra dunque che siano tornati i tempi delle catacombe, per i cristiani del Paese asiatico. E lo dimostra anche il fatto “che molti genitori in questi giorni hanno evitato di mandare i figli a scuola e che in tanti hanno cercato di evitare i luoghi di maggiore raggruppamento”.
E un luogo di questo tipo era il giorno della strage il parco giochi di Gulshan-e-Iqbal, dove tante famiglie cristiane erano andate a festeggiare la Pasqua dopo aver partecipato alle celebrazioni religiose.
L’attentato è stato rivendicato dagli islamisti di Jamatul Ahrar, già legato al principale gruppo talebano pachistano Tehrik e Taleban Pakistan (Ttp). Si tratta forse di una prova di forza dei talebani dinanzi all’insorgere dell’Isis, il quale fa incetta di consensi tra le frange più estreme dell’Islam pachistano. Ricorda a tal proposito Mobeen che “poco tempo fa è stato sgominato un gruppo intenzionato a creare una costola del Daesh (Isis, ndr) in Pakistan”. E che “ci sono campi di formazione dove mujaheddin vengono reclutati dall’Isis per compiere attentati non solo in Pakistan ma anche all’estero”.
Estremismo islamico che ha trovato finora una sponda istituzionale, che ora potrebbe però tramontare. Molti analisti interpretano l’attentato a Lahore come un segnale inviato al Governo, recentemente resosi disponibile a modificare la legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986 e che ha seminato tante vittime tra i cristiani. Già, perché oltre a prevedere la pena di morte per chi offende la religione islamica, questa misura è stata usata spesso come pretesto per incriminare, imprigionare o offrire al linciaggio delle folle i cosiddetti “infedeli”.
“Non credo che sia un segnale di questo tipo”, afferma invece Mobeen. Il quale ritiene piuttosto che con questo attentato il gruppo Ttp “abbia voluto segnalare la sua presenza a Lahore al primo ministro Nawaz Sharif”, che è originario di questa città. Il docente della Lateranense ricorda che in passato i talebani “hanno colpito maggiormente altre zone del Paese, ad esempio quelle confinanti con l’Afghanistan o quelle al Sud”.
La scottante dimostrazione di instabilità del Pakistan mette a rischio anche la visita di Papa Francesco, il quale ha ricevuto l’invito dal Governo di Islamabad appena poche settimane fa. Secondo Mobeen la presenza del Pontefice in Pakistan diventa ora una chimera, perché l’attentato “ha evidenziato tutte le falle di sicurezza delle autorità”.
Autorità che, al di là dei proclami, sembrano così impotenti dinanzi alla crescita del fondamentalismo islamico. Crescita che secondo Mobeen è dovuta al ruolo che ricoprono nel Paese le madrase, le scuole coraniche che negli anni (anche grazie a copiosi finanziamenti dall’estero) hanno lentamente eroso terreno all’istruzione pubblica.
Egli rileva che “molto spesso i genitori, non avendo a disposizione per i propri figli scuole statali, sono costretti a mandarli nelle madrase”, dove tuttavia possono venire indottrinati alla jihad. Soprattutto quando questi istituti sono terre franche dell’islamismo più radicale, svincolati da ogni monitoraggio.
Mobeen spiega infatti che “su 40mila madrase presenti sul territorio nazionale, quelle registrate dallo Stato, che seguono un minimo di curriculum, non sono nemmeno 8mila”. Ciò significa che “circa 32mila madrase vengono frequentate da centinaia di migliaia di bambini, che sono potenziali mujaheddin pronti a fare la guerra santa contro l’Occidente, contro la democrazia e contro le Istituzioni”.
Per cambiare la situazione, Mobeen chiede al Governo che venga ripristinato il Ministero federale per le Minoranze, perché “noi cristiani non siamo dhimmi (sudditi non-musulmani) da proteggere, ma siamo cofondatori del Pakistan e abbiamo pieno diritto di cittadinanza”. La pace dunque passa non per la protezione di una minoranza, ma per il riconoscimento delle pari opportunità.
Cristiani in Pakistan - Foto Copyright Aiuto alla Chiesa che Soffre
Il Pakistan, le madrase e i "cristiani delle catacombe"
Mobeen, dell’Associazione Pakistani Cristiani, racconta il clima che si respira nel suo Paese dopo l’attentato di Pasqua. Accusa le “scuole coraniche” e crede che ora la visita del Papa possa saltare