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In Siria sulle orme di Cristo, "a dare la vita per i fratelli"

Fra Ibrahim Alsabagh, parroco dei latini di Aleppo, racconta come viene vissuta la fede in Siria a cinque anni dall’inizio della guerra

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Si fa risalire al 15 marzo 2011 l’inizio della guerra in Siria, scoppiata con le manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad. Dopo cinque anni, il bilancio è devastante. Le vittime sono oltre 270mila, almeno metà della popolazione è costretta a fuggire dalla propria terra, un Paese in passato florido e pacifico è ridotto in rovina.
Simbolo della catastrofe è l’immensa distesa di polvere e scheletri di edifici che è la città di Aleppo. Patrimonio universale dell’Unesco, già capitale industriale della Siria, dal 2012 è al centro di un’ostinata battaglia che vede contrapposti da una parte l’esercito regolare siriano e i suoi alleati e dall’altra le varie milizie jihadiste e gli oppositori dell’esercito siriano libero.
In questa palude bellica che sembra risucchiare inesorabilmente la vita, la fede resiste come una fiammella che riscalda i cuori. A tenerla accesa, grazie all’assistenza spirituale e umana, contribuiscono i sacerdoti cattolici. Il parroco della comunità latina di Aleppo, il damasceno fra Ibrahim Alsabagh, spiega a ZENIT qual è la situazione attuale e cosa spinge dei pastori a sfidare la morte per restare fedeli al proprio gregge.
***
Padre Ibrahim, oggi qual è la situazione di Aleppo? La tregua sta ottenendo risultati positivi?
In questi giorni è arrivata l’acqua a diverse zone. Per noi è un grande segno di speranza, dopo più di cinquanta giorni di assenza. C’è la tregua, diverse milizie hanno aderiti ad essa e la rispettano, mentre altre milizie continuano a lanciare missili sulle abitazioni e sulle strade. È presente l’elettricità per qualche oretta al giorno: è un grande successo dopo cinque mesi di assenza. Insomma, la situazione oggi è sicuramente migliore di quella di un mese fa. Ma speriamo in una tregua più lunga e nella pace. La gente, che vive nella sofferenza di più di cinque anni, non ce la fa più.
In che modo la comunità cristiana di Aleppo vive la Quaresima nel contesto di questa guerra?
Come comunità cattolica, abbiamo raccolto l’invito contenuto nella lettera di Quaresima di Papa Francesco, come programma del nostro cammino penitenziale di quest’anno. Dunque la nostra Quaresima assume il colore delle opere di misericordia, corporali e spirituali. Anzi, cerchiamo sempre di trovare altri modi nuovi per praticare la misericordia. Nell’Omelia, durante la Messa del venerdì scorso, subito dopo la Via Crucis, ho ringraziato e lodato il Signore per i cristiani di Aleppo. Nonostante la loro sofferenza e il loro grande bisogno, loro non si chiudono nell’egoismo. Ma, con grande distacco, si aprono ai bisogni degli altri. Ho fatto notare loro come nonostante le nostre piaghe, il numero alto di poveri, di vedove e di orfani, di anziani senza sostegno, di tante famiglie senza entrate mensili, c’è uno spirito di solidarietà e di vera carità. Diversi soccorrono gli anziani che vivono nei loro quartieri; aprono le proprie case per accogliere le famiglie senzatetto malgrado lo spazio minimo nelle loro case. Nell’ultima settimana, cinque famiglie di quelle che hanno due case ad Aleppo o quelle che vivono fuori, ci hanno dato la chiave di casa per poter accogliere famiglie che si trovano nel bisogno. Ciò che vedo io, come parroco, è un’immagine bellissima di una comunità viva nella carità, che respira la misericordia. È una grande consolazione per me perché è una grande consolazione del Maestro.
Tra i cristiani di Aleppo è mai maturata la tentazione di impugnare le armi e formare delle milizie locali per combattere l’Isis?
Difendersi da un pericolo è un diritto umano fondamentale, che non può essere contestato. Come Chiesa, non incoraggiamo il ricorso alle armi, perché armarsi è una spada a doppio taglio. Diversi cristiani che vivono in altri Paesi vicini e che hanno iniziato a impugnare le armi per difendersi da nemici che li assalivano, sono finiti ad ammazzarsi fra di loro. In ogni caso, da noi il servizio militare è obbligatorio. Così, volenti o nolenti, diversi dei nostri giovani fanno parte dell’Esercito regolare e offrono ogni giorno tanti sacrifici per difendere la patria, la libertà del proprio popolo e le loro famiglie. Tornando alle milizie locali, bisogna dire che almeno qui ad Aleppo in pochi hanno aderito a questo progetto. Ma comunque, con tanti sacrifici, quei pochi sono persino riusciti a fermare l’avanzata dell’Isis.
E come i cristiani d’Aleppo vivono invece la comunione con la Chiesa universale?
Noi, cristiani di Aleppo facciamo parte, per natura, della Chiesa universale. Il Magistero e le parole del Santo Padre ci spronano. Grazie ai mezzi di comunicazione, noi seguiamo con grande interesse le attività quotidiane del Papa con “l’ossequio del cuore e della mente”. Concretizziamo poi la comunione che ci unisce dentro l’unica Chiesa, offrendo le nostre sofferenze per il bene di tutto il Corpo di Cristo. Offriamo inoltre tutte le nostre preghiere, i digiuni e i sacrifici sono vissuti per edificare questo Corpo. Diversi gruppi di cristiani d’oltreconfine mi hanno parlato dell’utilità della nostra testimonianza, vivendo la nostra fede seriamente in questa situazione di crisi. Voglio dire a tutti loro lo stesso: Anche la vostra testimonianza di una vita di fede nelle diverse crisi che voi affrontiate nei vostri Paesi è motivo di grande edificazione per noi. Continuate a pregare per noi, ma, per amore di Cristo e per amore di noi, viviate profondamente in modo radicale la vostra appartenenza a Cristo.
Cosa spinge voi sacerdoti a rimanere nel Paese nonostante la guerra e l’alto rischio per la vostra incolumità?
Il nostro sacerdozio proviene dal sacerdozio di Cristo, ci rende simili a Lui nella perfectae Caritatis. Un sacerdote fedele al Maestro, per sua natura e per la vita quotidiana di comunione che vive con Gesù, è contagiato dalla Sua perfetta carità: una carità senza limiti e senza condizioni, una carità che non si ferma al proprio bene o interesse, una carità perseverante e continua, una carità pronta a pensare e a preferire il bene ultimo degli altri, una carità che rende il sacerdote pronto a dare anche il sangue per i fratelli. Si tratta di una virtù che si rafforza nel cuore del sacerdote con l’imposizione delle mani, ma che ha bisogno di crescita costante. È nostro compito curarla sempre, con la preghiera e la contemplazione, con i sacramenti e con la pratica della carità di pastore. Una volta che questa carità è cresciuta, dà senso a tutta la nostra vita. Questa carità allora irradia nel cuore del sacerdote senza nessun bisogno di “spingere qualche bottone”, visto che si tratta di una carità legata alla stessa natura del suo sacerdozio. Una carità che può rendere un uomo pieno di paure, coraggioso per affrontare tutti i pericoli; che rende perfino una persona piena di esitazione e di dubbi, più certa e più decisa nel percorrere le strade dei valorosi e dei grandi eroi. Rispondendo allora alla domanda dico: vedo che questa cosa è la più naturale che un sacerdote potrà fare. “È della sua stessa natura essere pronto a dare la vita per i fratelli”.

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Federico Cenci

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