Il rapporto ISTAT contenente gli indicatori demografici e le stime per l’Italia per l’anno 2015 presenta un dato su cui mi sembra importante riflettere da parte di chiunque abbia a cuore il bene comune e il futuro del Paese. Afferma il testo: “Nel 2015 le nascite sono stimate in 488 mila unità, ben quindicimila in meno rispetto all’anno precedente. Si tocca, pertanto, un nuovo record di minimo storico dall’Unità d’Italia, dopo quello del 2014 (503 mila).
Poiché i morti sono stati 653 mila, ne deriva una dinamica naturale della popolazione negativa per 165 mila unità. Il ricambio generazionale, peraltro, non solo non viene più garantito da nove anni, ma continua a peggiorare (da -7 mila unità nel 2007 a -25 mila unità nel 2010, fino a -96 mila nel 2014)”. La decrescita della popolazione, insomma, è impressionante: il Paese invecchia sempre di più e il ricambio fra le generazioni, indispensabile alla tenuta dell’economia e allo sviluppo della Nazione, peggiora ulteriormente e sensibilmente.
Per rendere plasticamente l’idea si potrebbe dire che se fino a poco tempo fa sette lavoratori dovevano farsi carico di tre pensionati, a breve il rapporto sarà rovesciato. Le conseguenze socio-economiche di un simile processo sono rilevanti, non solo perché la mancanza di forza lavoro mette a rischio le prospettive di crescita dell’Azienda Italia (problema solo in parte alleggerito dall’afflusso provvidenziale degli immigrati), ma anche per le trasformazioni sociologiche e culturali profonde che verranno alla lunga a prodursi e di cui s’intravedono già segnali complessi.
Senza alcuna indulgenza verso ideologie discriminatorie di corta gittata, occorre considerare l’impatto dei nuovi costumi che gli immigrati portano con sé sul piano etico-religioso come su quello degli stili di vita, nell’ambito delle abitudini alimentari e delle relazioni sociali come in quello degli interessi vitali. Ciò che sarebbe normale aspettarsi è che il cambiamento venga analizzato e seguito con la dovuta attenzione, certamente non al fine di attuare inaccettabili politiche vessatorie verso i flussi migratori o restrizioni dei diritti civili di chi viene a contribuire col suo lavoro al futuro dell’Italia (del genere, ad esempio, di quelle adottate da una nazione pur di alte tradizioni democratiche come la Danimarca, che ha disposto il sequestro dei beni dei nuovi arrivati), ma per garantire a chi arriva tanto un’accoglienza degna, quanto i legittimi diritti e l’integrazione in vista del bene personale e della crescita dell’intera comunità nazionale.
In quest’ottica, politiche articolate di sostegno alle famiglie e alla natalità risultano indispensabili, come dimostra l’esperienza di un Paese come la Francia, che grazie a scelte adeguate in questo campo ha conosciuto una vera e propria inversione di tendenza nell’ambito demografico, risultando oggi fra le poche Nazioni europee dove il tasso di natalità è in crescita. Al Presidente del Governo, che ha pubblicamente lanciato l’appello a suggerire i campi d’intervento più necessari e urgenti per attuare riforme coraggiose, è allora legittimo chiedere il massimo d’investimento per nuove disposizioni legislative a favore della famiglia e della vita, ampiamente motivate dall’interesse generale e dalla promozione e tutela del futuro della nazione. Ciò che occorre è approvare e attuare quanto prima provvedimenti incisivi a favore della natalità, della crescita e dell’educazione dei figli, sul tipo di sgravi e aiuti alle famiglie che accolgono più figli e di opportuni sostegni a quelle che si fanno carico di anziani e di disabili.
A questa riflessione sull’urgenza di un’azione legislativa di rilievo a favore della natalità e della famiglia, non mi sembra improprio affiancare l’attenzione all’appello risuonato in queste settimane da più parti a favore dell’abolizione della pena di morte nel mondo, un appello che vorremmo i nostri Governanti facessero proprio con determinazione, nelle forme e nelle sedi più opportune.
Fra tutte, la voce maggiormente autorevole a livello globale è stata quella di Papa Francesco: prendendo spunto dal convegno internazionale promosso su questo tema a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio, il Papa, all’Angelus del 22 febbraio scorso, ha riconosciuto un “segno di speranza” nello “sviluppo, nell’opinione pubblica, di una sempre più diffusa contrarietà alla pena di morte”. Le motivazioni della richiesta pressante di abolire la pena capitale non risiedono solo nel fatto che è possibile “reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi”, ma anche nell’esigenza etica di “una giustizia penale aperta alla speranza del reinserimento”, tale da essere “sempre più conforme alla dignità dell’uomo e al disegno di Dio sull’uomo e sulla società”. Il comandamento “non uccidere” ha, infatti, “valore assoluto e riguarda sia l’innocente che il colpevole”.
In tale prospettiva, Francesco ha invitato a considerare l’anno santo della misericordia come “un’occasione propizia per promuovere nel mondo forme sempre più mature di rispetto della vita e della dignità di ogni persona”, dal momento che “anche il criminale mantiene l’inviolabile diritto alla vita”. La richiesta è appassionata e convinta: “Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga a un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte. E propongo a quanti tra loro sono cattolici di compiere un gesto coraggioso ed esemplare: che nessuna condanna venga eseguita in questo Anno Santo della Misericordia.
Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi a operare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà”. A prescindere dal colore politico dei destinatari, l’appello riguarda tutti i credenti impegnati in politica e con essi tutti coloro che intendano esercitare il loro servizio al bene comune ispirandosi a un’etica della vita, che anteponga il bene fondamentale di esistere ad ogni logica orientata a soluzioni di morte.
Tali soluzioni nella storia hanno dimostrato di essere sempre devastanti e alla lunga assolutamente infeconde, fallimentari per una morale della vita pubblica che metta al centro la dignità dell’essere personale e il suo diritto al futuro come spazio di recupero e di possibile nuovo impegno. Il sì alla vita si deve testimoniare sia sostenendo la natalità e la famiglia, che rifiutando con decisione la tragica scorciatoia della condanna a morte del colpevole, quale che possa essere stata la sua colpa. Anche così, la speranza non va “rubata” a nessuno”.
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Dalla denatalità alla pena di morte. L’irrinunciabile “sì” alla vita
L’editoriale dell’arcivescovo di Chieti- Vasto su ‘Il Sole 24 Ore’ di domenica 6 marzo