«Chi pensa solo a costruire muri non è cristiano».
Il suo pensiero Papa Francesco l’ha consegnato ai giornalisti in aereo, durante il viaggio di ritorno dal Messico. E non si può certo dire che quelle parole non avessero avuto applicazione concreta ancor prima che fossero pronunciate. Rientrando in Europa, il Santo Padre s’è lasciato alle spalle i semi della speranza piantati ovunque, anche dall’altra parte del mondo, a difesa della famiglia, della giustizia sociale, della dignità umana. Soprattutto, ha riportato con sé un bagaglio pieno di lavoro e fatica, gioia e fiducia, da consegnare adesso alla Chiesa intera per il completamento del cammino di riconciliazione avviato con i fratelli ortodossi, una tra le tante opere messe in cantiere nella settimana trascorsa oltreoceano.
La finestra per una possibile riconciliazione, che le Chiese cristiane d’Oriente e Occidente attendono dal 1594, anno del grande scisma, s’è aperta a Cuba, una delle poche terre di mezzo rimaste, luogo di transito fra vecchio e nuovo. La semplicità dell’incontro, riservato e lontano dalle folle oceaniche, è stata un contrappunto perfetto all’importanza dell’evento, favorito – ironia della sorte, o più semplicemente volontà dello Spirito Santo – da uno degli ultimi uomini di governo comunisti del pianeta, il presidente cubano Raul Castro, e reso commovente dallo stile dolcemente impacciato dei gesti e degli sguardi fra il patriarca di Mosca Kirill e Papa Francesco.
«Incontrandoci lontano dalle antiche contese del Vecchio Mondo, sentiamo con particolare forza la necessità di un lavoro comune tra cattolici e ortodossi, chiamati, con dolcezza e rispetto, a rendere conto al mondo della speranza che è in noi», si legge nella dichiarazione comune, nella quale viene anche espressa preoccupazione per le ambiguità antropologiche di una religione del denaro che connotano i processi della modernità civile mentre il fondamentalismo religioso sembra riproporre ovunque i tragici errori della colonizzazione.
In un Paese segnato dalla frattura tra Est e Ovest, e che a marzo – per la prima volta dopo 88 anni di contrapposizioni e conflitti – accoglierà un presidente dei vicini Stati Uniti d’America, l’abbraccio tra due fratelli può essere già considerato un segno profetico: la consapevolezza che i cristiani divisi rappresentino una contraddizione evangelica spinge, finalmente, ad un cambiamento nel solco della comunione.
Spinti dalle urgenze e dalle complesse sfide dell’era globale, dall’emergenza della pace e della rispettosa convivenza religiosa e civile, Oriente e Occidente si aprono alla stagione del dialogo. È la fine della diffidenza e il colpo d’ala su ciò che da qui in avanti potrà nascere nel segno della fraternità e «dell’ecumenismo del sangue», come lo ha definito proprio Papa Bergoglio.
Le ragioni dell’unità, insomma, si rivelano prevalenti rispetto a quelle del distacco. Il martirio comune dei cristiani, del resto, ne è la prova. E ciò dimostra quale sia la vera essenza della missione della Chiesa del terzo millennio: il cristianesimo si costruisce nel mondo che c’è, non nelle nebbie di quello tramontato.
+ Vincenzo Bertolone
© CubaMINREX
L’ecumenismo del sangue
Dal sangue versato dai cristiani sta nascendo una nuova unità ed un nuovo mondo