Papa Francesco in Messico, 2016

Papa, Vergine di Gaudalupe, 2016 / Papafranciscoenmexico.org

Messico: la "affettoterapia" di Francesco per un popolo ferito

Un’analisi del dodicesimo viaggio apostolico, alla luce delle più belle frasi pronunciate dal Pontefice

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Erano tante le attese per il viaggio di Francesco in Messico, terra non digiuna di visite papali dopo i cinque viaggi di Giovanni Paolo II, tra il 1979 e il 2002, e quell’unico del 2012 di Benedetto XVI, speciale perché l’ultimo prima della rinuncia. Il rischio poteva essere che Bergoglio portasse qualcosa di ‘già sentito’, di ‘già detto’, a questo paese “sorprendente” e “sofferente”, deludendo i sentimenti che accompagnavano la visita sin dall’annuncio ‘ufficioso’ tramite i canali di Televisa.

Sentimenti molteplici e spesso contrastanti. Non solo la speranza delle famiglie, ferite da crimini e migrazioni, o il desiderio di giustizia dei giovani e della Chiesa, ma anche la rivalsa delle comunità indigene scartate e dimenticate e il timore di certe fasce sociali, politiche e, purtroppo, anche ecclesiastiche ‘immischiate’ (per usare un termine caro al Pontefice) in omertosi meccanismi di corruzione e complicità con i poteri forti del narcotraffico.

Da non sottovalutare, poi, quel senso di ‘fastidio’ per la presenza del Vescovo di Roma nel paese, palesato da certe provocazioni a pochi giorni dal suo arrivo: il sanguinoso scontro nel carcere di Monterrey, l’omicidio della giornalista Anabel Flores Salazar a Veracruz, o anche lo strano caso del laser puntato sull’aereo papale al suo atterraggio, giusto per citarne alcuni.

Un viaggio che, insomma, non si prospettava facile per il Santo Padre, da poco uscito vittorioso da uno complesso e delicatissimo come quello di novembre in Centrafrica. Ma anche in Messico “Papa Panchito”, il Papa venuto dalla fine del mondo, il primo latinoamericano a sedere sul Soglio di Pietro, ha segnato non pochi successi.

Basterebbe citare solo il tête-à-tête con il patriarca Kirill a L’Avana, aperitivo dell’intero viaggio, che, al di là delle differenze teologiche irrisolte e forse irrisolvibili, dei risentimenti dei fedeli greco-cattolici ucraini, delle critiche su chi tra Roma e Mosca abbia firmato più paragrafi nella Dichiarazione congiunta, rimane comunque una svolta storica.

Bergoglio sapeva a cosa andava incontro in questo dodicesimo viaggio apostolico internazionale, e non si è fatto trovare impreparato. Ogni discorso (tutti in spagnolo, pochissimi a braccio) è stato un’occasione per ridisegnare la storia, la geografia (commovente la tappa a Ciudad Juarez, nella linea di confine tra il povero Messico e i ricchi Stati Uniti), la cultura e la politica di questo paese.

Se già erano ben note le denunce contro la ‘cultura dello scarto’ e la corruzione, mai come in questi giorni si era sentito il Pontefice tuonare contro lo sfruttamento del lavoro, la tratta umana, la tragedia umanitaria delle migrazioni e altri drammi circostanziati al Messico, quali narcotraffico, sequestri, morti, violenze, femminicidio.

Sin dal primo discorso ufficiale nel Palazzo presidenziale, a Città del Messico, il Papa ha domandato ad autorità, società civile e corpo diplomatico di mettere in primo piano il “bene comune”, a scapito del “privilegio” o dei “benefici per pochi”, che facilmente hanno favorito e favoriscono crimini e problematiche sociali.

È attraverso “una cultura ancestrale e un capitale umano aperto alla speranza”, che sarà possibile costruire una “politica autenticamente umana” ed una “società nella quale nessuno si senta vittima della cultura dello scarto”, ha detto il Papa. E nel Santuario di Guadalupe, dopo 20 minuti di orazione silenziosa davanti alla Morenita, ha chiesto di “risvegliare la speranza dei più piccoli, dei sofferenti, degli sfollati e degli emarginati, di tutti coloro che sentono di non avere un posto degno”

“Tutti siamo necessari, soprattutto quelli che normalmente non contano perché non sono ‘all’altezza delle circostanze’ o ‘non apportano il capitale necessario”, ha sottolineato il Papa. Proprio per questo ha poi esortato i numerosi vescovi riuniti nella Cattedrale dell’Assunzione, in un monumentale discorso-enciclica, ad avvicinarsi e abbracciare “la periferia umana ed esistenziale dei territori desolati delle nostre città”, in modo da “liberare totalmente dalle acque in cui purtroppo annegano tante vite”. Sia “quella di chi muore come vittima”, sia “quella di chi davanti a Dio avrà sempre le mani macchiate di sangue, per quanto abbia il portafoglio pieno di denaro sporco e la coscienza anestetizzata”.

“Ricchezza, orgoglio, vanità degradano l’uomo” ha rimarcato infatti il Pontefice nella Messa presso il Centro Studi di Ecatepec, dove tra l’altro ha ricordato che “con il demonio non si dialoga”. Di demonio ha parlato anche con i 20mila sacerdoti, religiosi e seminaristi di Morelia nello Stadio ‘Venustiano Carranza’, spiegando che la sua arma preferita è la “rassegnazione”, ovvero la tentazione che assale ogni consacrato davanti ad “ambienti dominati dalla violenza, dalla corruzione, dal traffico di droghe, dal disprezzo per la dignità della persona, dall’indifferenza davanti alla sofferenza e alla precarietà”.

La rassegnazione “ci paralizza e ci impedisce non solo di camminare, ma anche di fare la strada”, ha sottolineato il Santo Padre, “non soltanto ci spaventa”, ma “ci trincera nelle nostre ‘sacrestie’ e apparenti sicurezze”. Invece bisogna andare avanti, mirando a fare della terra messicana “una terra di opportunità”, come ha ricordato nell’Angelus a Ecatepec.

“Non bisogna perdere l’incanto di sognare insieme” e la certezza che “non tutto è perduto”, ha ribadito invece ai giovani nello Stadio ‘José Maria Morelos y Pavón’ di Morelia. Giovani che sono “una ricchezza” per il paese e che pertanto non devono “gettarsi nelle mani dei narcos”, credendo che le persone valgono solo quando hanno denaro “per comprare tutto, compreso l’affetto degli altri”. “Gesù non ci invita ad essere sicari, ma ci chiama ad essere discepoli”.

Parole appassionate, come quelle pronunciate nell’incontro con le famiglie nello stadio di Tuxtla Gutiérrez, quando ha affermato: “Preferisco una famiglia con volti stanchi per i sacrifici ai volti imbellettati che non conoscono tenerezza e compassione”. Di qui l’invito a “scommettere sulla famiglia”  e contrastare le “colonie di ideologie distruttrici del nucleo familiare”.

Bergoglio ha poi ricucito una ferita storica della storia messicana, quando, nella Messa in Chiapas celebrata in lingua maya, ha chiesto “perdono” ai popoli indigeni dell’America Centrale “che hanno molto da insegnarci” e sollecitato ad un “esame di coscienza” nei loro confronti da parte dei potenti.  Sulla stessa scia, incontrando 3mila tra imprenditori e lavoratori nel palazzetto dello sport di Ciudad Juárez, il Papa ha stigmatizzato “lo sfruttamento dei dipendenti come oggetti da usare e gettare”. “Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni, e noi dobbiamo fare tutto il possibile perché queste situazioni non si verifichino più”, ha ammonito.

E se per i piccoli pazienti dell’Ospedale Pediatrico “Federico Gomez” di Città del Messico ha prescritto una “affettoterapia” capace di curarli più dei medicinali, per i detenuti del Centro de Readaptación Social estatal n°3 a Ciudad Juarez, Francesco ha domandato un “reinserimento” in società che non comincia tra le pareti di un carcere ma già “nelle vie della città”, creando un sistema di “salute sociale”, che permetta alla società di “non ammalarsi, inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle piazze, nelle vie, nelle abitazioni, in tutto lo spettro sociale”. Ai carcerati, anche, le indimenticabili parole: “Chi ha sofferto profondamente il dolore e ha sperimentato l’inferno come voi può diventare profeta nella società”.

Indimenticabile sarà pure l’ultima tappa a Ciudad Juarez, la Lampedusa d’America, dove oltre 5mila persone hanno perso la vita in un passaggio “carico di terribili ingiustizie”: “Schiavizzati, sequestrati, soggetti ad estorsione, molti nostri fratelli sono oggetto di commercio del transito umano”, ha denunciato il Papa. E non ha mancato di esprimere il suo dolore per i giovani trattati “come carne da macello”, “perseguitati e minacciati quando tentano di uscire dalla spirale della violenza e dall’inferno delle droghe”, o per le “tante donne alle quali con la violenza è stata ingiustamente tolta la vita!”.

Di qui una promessa per tutto il popolo messicano: “Mai più morte e sfruttamento! C’è sempre tempo per cambiare, c’è sempre una via d’uscita e un’opportunità, c’è sempre tempo per implorare la misericordia del Padre”. 

Parole di un pastore realmente preoccupato della vita delle proprie pecore, a qualsiasi latitudine esse si trovino. E non di un “politicante”, con buona pace di Donald Trump…

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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