La storia del cinema insegna che le sequenze iniziali dei film possono racchiudere il senso del film stesso e del lavoro del regista. Un incipit dunque, che, allo stesso tempo, assolve il compito di anticipare l’andatura, il ritmo – se non addirittura il finale – di una pellicola.
In questo contesto, l’inizio di The Hateful Eight, ottavo film di Quentin Tarantino, rappresenta forse un manuale d’istruzioni: un Cristo crocifisso ricoperto di neve, viene lungamente ripreso dalla macchina da presa, trasferendo subito allo spettatore un senso di angoscia e di turbamento.
L’inquadratura si allarga, la macchina da presa si allontana, e la distesa innevata del Wyoming prende forma. Ad essere minacciosa non è la raffigurazione del Cristo, bensì la neve stessa, che impetuosa ricopre il paesaggio circostante senza eccezione alcuna.
Lei, la neve, sarà protagonista della pellicola, portatrice di pericoli e artefice dell’evento fondamentale che racchiude il film. È rivelato dunque un aspetto del film ma, come detto, questa sequenza rivela molto di più che un semplice aspetto: in un mondo ricoperto totalmente ed indiscriminatamente da uno strato di malvagità e pericolo (la neve), non sopravvive neanche una morale o un’etica superiore, anche la giustizia divina (rappresentata dal crocifisso) viene “ricoperta” da tale malvagità e per questo annullata.
Ecco il finale anticipato del film, ecco Tarantino che torna a dare straordinarie lezioni di cinema.
Nella pellicola, ambientata pochi anni dopo la guerra civile americana, John Ruth, cacciatore di taglie soprannominato “il boia”, deve condurre a Red Rock la pericolosa latitante Daisy Domergue per riscuoterne la taglia. Sulla sua strada incontra il Maggiore Marquis Warren e il sudista Chris Mannix, entrambi uomini soli e rinnegati, in cerca di un passaggio verso Red Rock per non morire sotto la bufera incombente.
Dopo lo scetticismo iniziale, il boia decide di aiutarli ma tutti dovranno presto fermarsi all’emporio di Minnie poiché la neve rende impossibile continuare il viaggio. Ad attenderli ci saranno quattro sconosciuti ed un piatto di stufato caldo. Ma John Ruth è dubbioso, sospetta un complotto per liberare Daisy. Forse nessuno è chi dice di essere…
L’identità, frammentaria ed enigmatica, è di fatto al centro dell’ottavo film di Tarantino: in una costante ricerca di lettere, documenti e ogni altro possibile segno tangibile di identificazione e riconoscimento, solo la diffidenza e la menzogna sopravvivono.
Come i personaggi sono ingannatori, così è anche film. L’impianto drammaturgico, la ferrea sceneggiatura e la rigorosa messa in scena contribuiscono in modo decisivo a creare quel clima di sospetto di cui i protagonisti sono portatori. Tarantino dimostra di poter raccogliere l’eredità di Hitchcock in quanto a suspense: utilizzando un pellicola 70 mm (più grande della tradizionale 35 mm) può rappresentare più personaggi nella stessa inquadratura all’interno di uno spazio chiuso. Questo fa sì che in una singola inquadratura siano presenti sia azioni in primo piano che sullo sfondo, obbligando così lo spettatore a prestare una notevole attenzione per poter seguire più componenti contemporaneamente.
Gli stessi Stati Uniti non sfuggono ad una rappresentazione frammentaria dell’identità: la guerra civile ha cancellato i rapporti di reciproca fiducia, le ingiustizie del conflitto sono ancora troppo fresche per esser dimenticate e gli uomini vivono in bilico tra moralità e disonestà. Un tale clima, rafforzato dalla mancanza di un effettivo Stato Sovrano, ha generato interpretazioni individualistiche della giustizia: “è il boia a distinguere la giustizia, perché ammazza senza coinvolgimento emotivo”.
In assenza di fiducia, e in definitiva in assenza anche di giustizia, rimane solo un fattore a regolare i rapporti interpersonali: la violenza.
In un film in cui sopravvivono solo gli archetipi del racconto americano dello scontro di civiltà (bianchi contro neri, americani contro messicani, nordisti contro sudisti, uomini contro donne), la violenza si trasforma da mezzo narrativo a specchio di una società corrotta. Ma il film supera i confini del passato per farsi racconto profetico del futuro, denuncia della deriva che la società contemporanea rischia di prendere se non si regolamentano a dovere i rapporti sociali, se non si applica correttamente la giustizia. Hateful Eight non è dunque esaltazione della violenza, bensì è richiamo all’ordine, è rappresentazione del passato come forma di correzione per il futuro.
In questo modo, quello che all’inizio testimoniava l’assenza di una giustizia superiore o “divina”, è al contempo simbolo di speranza: la speranza che la neve che ricopre quel Cristo Crocifisso possa sciogliersi al sole e che, con essa, possa sciogliersi quello strato di violenza e falsità che ricopre l’uomo.
“The Hateful Eight”: la violenza che vuole cancellare la violenza
Tra lezioni di cinema e suspense, l’ottavo film di Quentin Tarantino rappresenta la brutalità come specchio di una società corrotta e senza moralità