Darwin Day: Chesterton rilegge la teoria dell’evoluzione

La Chiesa non ha mai condannato esplicitamente l’opera dello scienziato britannico ma ha sempre mostrato prudenza per le sue implicazioni antropologiche e filosofiche

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Oggi è il “Darwin Day”, il giorno nel quale nel mondo si ricorda la nascita dello scienziato e naturalista Charles Darwin (1809-1882), noto per aver formulato la teoria dell’evoluzione. Nell’immaginario comune, Darwin non è visto di buon occhio dalla Chiesa perché questi, con le sue scoperte scientifiche, avrebbe smontato la favoletta della creazione.
Ma le cose stanno davvero così? È necessario ricordare che la Chiesa non ha condannato con un apposito documento le teorie di Darwin, anche per evitare un nuovo “caso Galilei”. Tuttavia, la Chiesa ha avuto nei confronti della teoria dell’evoluzione una certa prudenza, non tanto perché questa contraddice il racconto della Genesi, quanto piuttosto per le sue implicazioni antropologiche e filosofiche.
Il cuore della questione sembra essere magistralmente colto dalle parole dello scrittore inglese Chesterton che qui sotto riportiamo. Le parole che leggeremo sono contenute in un articolo (cfr. G.K.C., Il pozzo e le pozzanghere, Lindau, Pavona 2012, pp. 80-81.) che in realtà parla della sopravvivenza della religione nel mondo moderno, ma è illuminante per mettere a fuoco le riserve che si possono avere, non tanto sulla teoria dell’evoluzione, quanto sulla sua errata interpretazione.
Infatti, Chesterton mette subito in luce il fatto che temi centrali della teoria darwiniana come “selezione naturale” e “lotta per la vita” siano stati generalmente compresi male, dando vita a logiche spietate. Ed egli ha proprio ragione se pensiamo a come il fraintendimento della teoria di Darwin abbia contribuito alla nascita e allo sviluppo di varie ideologie totalitarie come il nazismo, il comunismo e il liberismo, dove la lotta per la vita viene rispettivamente declinata in lotta della razza ariana contro le altre razze, dei proletari contro i borghesi e dei ricchi contro i poveri. Ma lasciamo la parola all’illustre scrittore.
“Tra i 1000 pasticci che la moda materialista riuscì a cavare dalla famosa teoria (di Darwin), ci fu l’idea, condivisa da molti, che la lotta per l’esistenza dovesse essere necessariamente una vera lotta tra i candidati alla sopravvivenza: letteralmente, una competizione all’ultimo sangue. Aleggiava nell’aria l’idea che la creatura più forte avrebbe primeggiato sulle altre con la violenza. L’idea che questo fosse l’unico metodo di miglioramento venne ovunque accolta come una buona notizia per gli uomini cattivi; cattivi governanti, cattivi dirigenti, sfruttatori, truffatori e tutti gli altri.
L’energico promotore finanziario si sentì in diritto di paragonarsi modestamente a un mammut che calpesta altri mammut in una specie di giungla primordiale. Uomini d’affari distrussero altri uomini d’affari, nella straordinaria consolazione che anche i cavalli preistorici divorarono altri cavalli preistorici. Il ricco scoprì tutto a un tratto che affamare e derubare i poveri non era soltanto conveniente, ma anche cosmico, perché gli pterodattili possono avere usato le loro piccole mani per strapparsi gli occhi l’un l’altro. La scienza, questo essere senza nome, dichiarò che il più debole dovesse essere messo al muro, in particolare a Wall Street.
Dall’ingenuo razionalismo del XVIII secolo al puro scientismo del XIX secolo si è verificato un rapido declino e degrado nel senso di responsabilità del ricco. Il grande Jefferson quando, con riluttanza, legalizzò la schiavitù, disse di temere per il suo paese, poiché sapeva che Dio è giusto. Qualche tempo dopo, il profittatore fu fiero di se stesso quando legalizzò l’usura e la frode finanziaria, poiché sapeva che la natura è ingiusta.
Comunque siano andate le cose la gente che parlava in questo modo di cavalli cannibali e di ostriche competitive non comprese la tesi di Darwin. Per il darwinismo il punto non era che un uccello dal becco più lungo riesce a infilzare gli altri uccelli e ha il vantaggio del duellante che combatte con la spada più lunga. Il punto era che l’uccello con il becco più lungo arriva ai vermi che stanno in un buco più profondo e che gli uccelli senza quel becco muoiono, e così, una volta rimasto solo, quell’uccello fondò la razza degli “uccelli dal becco lungo”.
Il punto allora è che il più adatto all’ambiente non ha avuto bisogno di lottare contro il meno adatto. Colui che è destinato a sopravvivere non deve fare altro che sopravvivere, mentre gli altri non possono farlo. Egli è sopravvissuto perché lui solo alle caratteristiche e gli organi necessari alla sopravvivenza”.
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Fonte: L’Ancora online

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Nicola Rosetti

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