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Gli embrioni umani? Non sono merce

Ciò che conta oggi è il soddisfacimento dei desideri e delle possibilità tecniche, che spesso diventano egoismi, nella confusione tra il desiderio e il bisogno

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Gli embrioni umani? Non sono merce. Lo ha ricordato Papa Francesco una settimana fa, nell’udienza al Comitato Nazionale di bioetica: “Trattare gli embrioni umani come materiale scartabile”, ha detto il Santo Padre, “è una delle espressioni della cultura dello scarto”. Motivo per il quale, ha soggiunto, al fine di contrastare le degenerazioni di una società protesa alla competizione ed all’accelerazione del progresso ma poco attenta all’uomo, è necessario “uno sforzo sempre maggiore verso un confronto internazionale in vista di una possibile e auspicabile, anche se complessa, armonizzazione degli standard e delle regole delle attività mediche e biologiche, che sappiano riconoscere i valori e i diritti fondamentali”.
Se quelle regole ci fossero state, forse, non sarebbe stata autorizzata la manipolazione di embrioni umani precoci annunciata proprio nei giorni scorsi in Inghilterra dall’ente responsabile degli studi sulla fertilità: per la prima volta al mondo, dopo il fallimento registrato dalla Cina nel 2015, sarà ufficialmente consentito manipolare l’alberello della vita. Certo, si precisa, senza che questo possa poi portare all’utilizzo della tecnica a fini riproduttivi, ma intanto un altro limite è saltato, e nessuno nuovo è stato posto. Si va avanti, in nome della dea Ragione, senza curarsi di null’altro che sperimentare. Ciò che conta, ormai, è il soddisfacimento dei desideri e delle possibilità tecniche, che spesso diventano egoismi, nella confusione tra il desiderio – dimensione simbolica dell’essere umano – e il bisogno, che attiene alla sfera delle necessità e delle motivazioni. Una distinzione poco presente, anzi volutamente ignorata, che trasforma il legittimo ed encomiabile intento di divenire madri o padri nel bisogno di generare, riducendo i figli ad un prodotto della cui acquisizione si accampa il diritto di pre-decidere la configurazione genetica o di programmare l’eliminazione di malattie ritenute odiose. A quel bambino che da grande chiederà lumi sulla propria provenienza si potrà magari raccontare una bugia o tacere la verità, ma lo si priverà in ogni caso – per restare nel campo dei diritti – di una facoltà fondamentale: conoscere le sue radici storiche.
In questo spezzare il filo tra generazioni v’è, di fatto, la negazione del valore – tutt’altro che simbolico – della gravidanza: essa non è solo un passaggio in un contenitore biologico all’occasione intercambiabile, quanto invece un periodo essenziale nel quale la madre, in un rapporto biologico e psichico dialoga fisiologicamente, emotivamente e razionalmente con il feto, trasmettendogli sentimenti, percezioni, sensazioni. Tanto basterebbe a suggerire cautela o, come propongono i bioeticisti, precauzione; ma la moderazione è virtù ormai desueta per chi si fa forte del lasciapassare al possibile uso in futuro di terapie a base di pezzi di embrioni umani.
Né si può ignorare che dietro il via libera totale alla sperimentazione in tale ambito, magari con le migliori intenzioni, si nasconde la volontà di altri di affermare l’assoluta libertà anticamera dell’affermazione di quel principio di completa autodeterminazione che porta dritti alla legittimazione di ogni pratica fino all’abuso. E sembra qui di risentire le parole che in un celebre film di Luchino Visconti, Ludwig, un servitore rivolge al suo sovrano: “Chi ama davvero la vita, maestà, non può permettersi la ricerca dell’impossibile, ma deve giocarla con infinita prudenza”.

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Vincenzo Bertolone

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