Papa Francesco

ZENIT - ASB

Il Papa: "Consacrati chiacchieroni, mordetevi la lingua! Pregate di più per il calo di vocazioni"

Battute, gesti teatrali e tirate d’orecchie nel discorso a braccio di Francesco a 5mila religiosi, suore e sacerdoti, in Vaticano per il Giubileo della Vita consacrata

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Battute sarcastiche (“Ci sono monasteri che per rispondere alla sterilità delle vocazioni ricorrono alla ‘inseminazione artificiale’”), duri moniti (“Obbedienza, perché l’anarchia è figlia del demonio”), e qualche tirata di orecchie (“Chi chiacchiera contro il suo fratello o sorella è un terrorista!”).

Un Francesco a tutto campo colloquia con circa 5mila religiosi, suore e sacerdoti, ricevuti oggi in Aula Paolo VI in occasione del Giubileo della Vita Consacrata. Come ormai consuetudine, il Papa cestina il discorso preparato: “Ho consegnato al cardinale il testo perché è un po’ noioso leggerlo e preferisco parlare con voi di quello che mi viene al cuore” spiega. Si lancia quindi in un lungo discorso a braccio in cui indica quelli che sono i tre “pilastri della Vita consacrata”: profezia, prossimità e speranza. “Ce ne sono anche altri”, dice, “ma questi mi sembrano importanti”.

Profezia, sottolinea il Pontefice, che equivale ad obbedienza. Quella resa “perfetta” da Cristo, il quale “si è annientato, fatto uomo, fino alla morte di Croce”. “Ma ci sono tra voi, uomini e donne che vivono un’obbedienza forte, un’obbedienza non militare  – quella è disciplina, un’altra cosa.. – un’obbedienza del cuore?”, domanda il Santo Padre. 

Proprio questa, sottolinea, è il tipo di profezia richiesta ai consacrati “contro il seme dell’anarchia che semina il diavolo”. La tentazione, cioè, del “tu che fai? Faccio quello che mi piace”.

Attenzione, ammonisce Bergoglio, perché “l’anarchia della volontà è figlia del demonio, non è figlia di Dio”. “Il figlio di Dio non è stato anarchico, non ha chiamato i suoi a fare una forza di resistenza contro i suoi nemici”. Lui “ha obbedito al Padre. Soltanto ha detto: ‘Padre per favore questo calice no, ma si faccia quello che tu vuoi’”. 

Allora si deve obbedire anche “ad una cosa che forse tante volte non ci piace”, rimarca il Papa e, sorridendo, fa il segno della barba che si allunga, per indicare la noia che possono suscitare certe richieste dei superiori. (“Delle volte, siccome il mio italiano è tanto povero devo parlare il linguaggio dei sordomuti…”, scherza).

“Profezia – riprende il Pontefice – è dire alla gente che c’è una strada di felicità, una grandezza che ti riempie di gioia che è la strada vicina a Gesù”. La profezia è pertanto “un dono”, “un carisma” che va chiesto allo Spirito Santo, affinché “io sappia dire quella parola in quel momento giusto; che io faccia quello in quel momento giusto; che la mia vita tutta sia una profezia”. 

Insieme ad essa, prosegue Francesco, serve “prossimità”. Perché non ci si consacra “per allontanare la gente e avere tutte le comodità”. No, no, bisogna anzi “avvicinare” la gente e “capire la vita dei cristiani e dei non cristiani”, le loro “sofferenze”, i loro “problemi” e tutte quelle cose che soltanto si capiscono ci si fa prossimi.

“Ma padre io sono una suora di clausura e cosa devo fare?”. “Pensate a Santa Teresa del Bambino Gesù – dice il Papa -. Lei è patrona delle missioni! Col suo cuore ardente era prossima. E le lettere che riceveva dai missionari la facevano più prossima alla gente”.

Diventare consacrati non significa quindi “salire 1, 2 o 3 scalini nella società”. Certo, ci sono genitori che “con orgoglio” si vantano: “Ho una figlia suora, un figlio frate”. “È vero, è una soddisfazione per i genitori avere figli consacrati”, osserva il Pontefice. Ma per i consacrati stessi questo “non è uno status di vita che mi fa guardare gli altri dall’alto in basso. Una vita consacrata mi deve portare alla vicinanza con la gente”. Fisica e spirituale.

Bergoglio inscena quindi il solito colloquio: “Ah, nella mia comunità la superiora ci ha dato permesso di uscire e cercare nei quartieri poveri…’. ‘Dimmi, nella tua comunità ci sono suore anziane?’. ’Sì, c’è una infermiera al III piano…’. ‘E quante volte vai a trovare queste sorelle anziane che possono essere tua mamma e tua nonna?’. ‘Ma lei sa padre io sono molto impegnata nel lavoro e non ce la faccio…’”.

Non funziona così: serve “prossimità”, a cominciare dai propri fratelli o sorelle di comunità. “E anche una prossimità carina, buona, con amore”, rimarca Francesco, che sarcastico aggiunge: “So che nelle vostre comunità mai si chiacchiera. Ecco, un modo di allontanarsi dei fratelli e delle sorelle è proprio questo: il terrorismo delle chiacchiere. No le chiacchiere, il terrorismo delle chiacchiere! Perché chi chiacchiera è un terrorista, butta come una bomba una parola contro questo, contro quello e poi se ne va tranquillo. Chi fa questo distrugge la comunità”.

“Dominare la lingua” non è facile; San Paolo la definiva “la virtù umana più difficile da avere”. Un rimedio però c’è, suggerisce il Papa: “Se ti viene di dire qualcosa contro un fratello o sorella, di buttare una bomba, morditi la lingua (e fa il gesto). Così. Forte!”.

Se poi c’è qualche “difetto” o qualcosa “da correggere”, che non è “conveniente” o “fastidia” vai e lo dici al diretto interessato. O ancora meglio lo esprimi pubblicamente durante il Capitolo. Esiste, infatti, “la tentazione di non dire le cose in Capitolo, e poi fuori: ‘Ah, ma hai visto il superiore, ha visto la priora?’. Perché non l’hai detto in capitolo?”. 

Le chiacchiere – ribadisce, dunque, Bergoglio – “non servono” a nulla se non a distruggere l’armonia di una comunità. “Se tu butti la bomba di una chiacchiera, questa non è prossimità, questo è fare la guerra, allontanarti, provocare distanze, anarchia nella comunità”, ammonisce. E auspica che “se in questo Anno della Misericordia, ognuno di voi riuscisse a non fare mai il terrorista chiacchierone sarebbe un successo per la Chiesa, un successo di santità grande”.

Terzo pilastro è poi la speranza. Virtù che – confessa il Santo Padre – “a me costa tanto”, soprattutto: “quando vedo il calo delle vocazioni. Quando ricevo i vescovi e domando: ‘Quanti seminaristi avete? Eh, 4 o 5’. Quando vedo nelle vostre comunità religiose, maschili o femminili, un novizio o massimo due e la comunità invecchia. Quando ci sono grandi monasteri portati avanti da 4-5 suore vecchiette…”. Tutto questo, afferma il Pontefice, “mi fa venire una tentazione contro la speranza:  Ma Signore cosa succede? Perché il ventre della Vita consacrata diventa tanto sterile?”.

D’altra parte ci sono Congregazioni che “fanno l’esperimento della fecondazione artificiale”, osserva il Papa. Cioè “ricevono, ricevono” senza curarsi dei “problemi” che possono poi sorgere nell’animo della persona accolta o nella stessa Congregazione. Invece, “si deve ricevere con serietà, si deve discernere se questa è una vera vocazione, e poi aiutarla a crescere”.

Medicina contro questa tentazione della “di-speranza” è la preghiera. Quella appassionata e incessante di Anna, la mamma di Samuele, che chiedeva tra le lacrime un figlio. “Io vi domando: il vostro cuore davanti al calo delle vocazioni prega con questa intensità? La nostra congregazione ha bisogno di figli!”, sottolinea Francesco.

E assicura: “Il Signore è stato tanto generoso, non mancherà la sua promessa. Però noi dobbiamo chiedere, bussare alla porta del Suo cuore”. Anche perché c’è il brutto “pericolo” di attaccarsi ai soldi. “Quando una Congregazione vede che non ha figli e nipoti e incomincia a essere più piccola, si attacca ai soldi. E voi sapete che i soldi sono lo sterco del diavolo… Quando non posso avere la grazia di aver e vocazioni si pensa che i soldi che salveranno la vita, la vecchiaia…”. Così non c’è speranza, afferma il Pontefice. “La speranza è solo nel Signore, i soldi non te la daranno mai. Anzi ti buttano solo giù”.

Prima di concludere, il Vescovo di Roma esprime la propria gratitudine per il contributo offerto dai consacrati. Soprattutto le consacrate: “Cosa sarebbe la Chiesa se non ci fossero le suore?”, esclama. Ricorda quindi i tanti “uomini e donne che hanno dato la vita” in ospedali, collegi, parrocchie, quartieri. “Quando tu vai in un cimitero – dice – e vedi che ci sono tanti missionari morti e tante suore morte a 40 anni perché hanno preso le malattie in Africa, che le febbri di quei paesi gli hanno bruciato la vita, dici: ‘Questi sono Santi, sono semi’. Allora dobbiamo dire al Signore che scenda su questi cimiteri e veda cosa hanno fatto i nostri antenati e ci dia più vocazioni perché ne abbiamo bisogno”.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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