Ogni fedele che si reca in pellegrinaggio a un santuario porta con sé la propria storia, la propria fede, le proprie luci e ombre, la sua fatica, la sua spiritualità. “Ognuno porta nel cuore un desiderio speciale e una preghiera particolare”. Insomma vi porta tutta la sua vita. Per questo chi si occupa della organizzazione di pellegrinaggi, come pure i parroci, i rettori e gli operatori dei santuari, sono chiamati ad accogliere “bene” ogni pellegrino, dal punto di vista spirituale ma anche materiale.
È un messaggio chiaro quello che Papa Francesco rivolge agli operatori dei pellegrinaggi ricevuti oggi in udienza in Aula Paolo VI, per la conclusione delle celebrazioni del loro Giubileo a Roma. Il Pontefice identifica con tutti loro una parola chiave che è “accoglienza”, che deve essere “affettuosa, festosa, cordiale, e paziente”. “Con l’accoglienza, ci giochiamo tutto”, afferma Bergoglio, e rammenta che anche Gesù ne parlava ma soprattutto la praticava, aprendo le braccia a peccatori come Matteo o Zaccheo che hanno cambiato la loro vita proprio in virtù dell’accoglienza ricevuta.
E dato che “il santuario è realmente uno spazio privilegiato per incontrare il Signore e toccare con mano la sua misericordia”, ogni persona che ne varca la soglia “ha bisogno di essere accolta bene sia sul piano materiale sia su quello spirituale”. È importante – ribadisce il Papa – che egli “si senta trattato più come un ospite, come un familiare. Deve sentirsi a casa sua, atteso, amato e guardato con occhi di misericordia”.
Questo vale con chiunque: “giovane o anziano, ricco o povero, malato e tribolato oppure turista curioso”. Tutti devono trovare la dovuta accoglienza, rimarca Bergoglio, “perché in ognuno c’è un cuore che cerca Dio, a volte senza rendersene pienamente conto”. Inoltre, assaporando “la gioia di sentirsi finalmente compreso e amato”, il pellegrino “avrà il desiderio di ritornare, ma soprattutto vorrà continuare il cammino di fede nella sua vita ordinaria”.
Francesco parla quindi di religiosità popolare, quella che Paolo VI definiva nella Evangelii Nuntiandi “religiosità popolare”, mentre l’Episcopato latinoamericano, nel documento di Aparecida, come “spiritualità popolare”. Essa è “una genuina forma di evangelizzazione, che ha bisogno di essere sempre promossa e valorizzata, senza minimizzare la sua importanza”. Andare pellegrini ai santuari ne è “una delle espressioni più eloquenti”, manifestando la pietà di generazioni di persone, “che con semplicità hanno creduto e si sono affidate all’intercessione della Vergine Maria e dei Santi”.
Nei santuari, infatti, la gente esprime appieno questa pietà, questa “profonda spiritualità”, osserva il Santo Padre; in alcuni luoghi e in alcuni momenti come la preghiera a Cristo Crocifisso, il Rosario o la Via Crucis, essa diventa ancora più “intensa”. Dunque “sarebbe un errore ritenere che chi va in pellegrinaggio viva una spiritualità non personale ma ‘di massa’”, rimarca il Pontefice. Il pellegrino porta tutto sé stesso ed entrando nel santuario, deve sentire allora “di trovarsi a casa sua, accolto, compreso, e sostenuto”.
Per farlo non sono necessari grandi gesti, “a volte, basta semplicemente una parola, un sorriso, per far sentire una persona accolta e benvoluta”. Perché spesso il pellegrino arriva al santuario “stanco, affamato, assetato”, e “questa condizione fisica rispecchia quella interiore”.
In tal senso l’accoglienza diventa “determinante per l’evangelizzazione”, evidenzia Francesco. E conclude ricordando che fondamentale è l’accoglienza offerta dai ministri del perdono. “Chi si accosta al confessionale lo fa perché è pentito del proprio peccato. Percepisce chiaramente che Dio non lo condanna, ma lo accoglie e lo abbraccia”, ricorda il Papa. E mette in riga tutti i sacerdoti che svolgono un ministero nei santuari – che sono “casa del perdono” – ad avere “il cuore impregnato di misericordia” ed un atteggiamento che sia “quello di un padre”.