The relics of Don Bosco

Inspectoría Salesiana “Nuestra Señora de la Asunción” - Andrea Cherchi

Testimoni del Risorto, assieme a don Bosco

Don Sabino Palumbieri racconta la sua esperienza di salesiano e fondatore di un movimento laicale

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In quasi settant’anni da salesiano, ha vissuto a 360 gradi il carisma di don Bosco. Direttore di oratorio, poi professore di antropologia, infine fondatore del movimento Testimoni del Risorto, don Sabino Palumbieri, 81 anni, è davvero un segno vivente del cristianesimo gioioso del santo piemontese, di cui l’anno passato si è celebrato il bicentenario della nascita.
Per l’occasione, ZENIT ha incontrato don Palumbieri, presso la Pontificia Università Salesiana, dove ha insegnato per più di trent’anni antropologia religiosa e dove tuttora ancora svolge ricerca, collaborando anche alla stesura delle tesi di laurea.
Studioso acuto e rigoroso, Palumbieri ha saputo coniugare la dimensione intellettuale del suo sacerdozio, con gli aspetti più propriamente spirituali e carismatici, legati al suo movimento e alle problematiche d’attualità.
Don Sabino, come nacque la sua vocazione salesiana?
Sono cresciuto in una famiglia dove mia madre e mio padre si amavano tenerissimamente e hanno amato tenerissimamente anche me. Nell’oratorio salesiano che frequentavo in Puglia riscontrai lo stesso amore e lo stesso affetto, sia tra i sacerdoti e che nei confronti dei ragazzi. “Qui si respira la stessa aria di casa mia”, pensai. Sono entrato quindi tra i salesiani all’età di quindici anni e a sedici emisi i tre voti di povertà, castità ed obbedienza. È come se Cristo mi avesse preso per i capelli e mi avesse detto: “Sei mio”. Ero diventato un sacerdote, un alter Christus. Ricordo che il giorno della mia ordinazione, avvenuta alla basilica di Santa Maria Ausiliatrice a Torino, davanti alla tomba di don Bosco, mio padre cadde in ginocchio e mi disse: “padre mio, benedicimi…”. Capii che ero diventato “padre di mio padre”… Mia madre, invece, mi disse: “figlio mio, adesso capisco cos’è il paradiso”.
Il mio primo incarico da sacerdote fu un oratorio di 1200 ragazzi a Bari. Poi il rettor maggiore mi indirizzò all’insegnamento dell’antropologia teologica. Per me fu un grande strappo dover lasciare l’oratorio ma l’insegnamento era quello che il Signore voleva per me. Iniziai alla succursale della Salesiana a Napoli, poi, nel 1980, passai alla sede centrale di Roma, dove sono stato titolare di cattedra fino a sei anni fa.
È appena trascorso l’anno del bicentenario della nascita di don Bosco: qual è il dono più grande che il vostro santo fondatore ci lascia in eredità?
La scelta fondamentale di don Bosco è per i giovani abbandonati e poveri. Mamma Margherita, oggi venerabile, che pure sbarcava a fatica il lunario, quando il figlio divenne chierico, gli disse: “Se diventerai ricco, non metterò più piede in casa tua…”. Era una madre poverissima di avere e ricchissima di essere… E don Bosco la ascoltò: da giovane sacerdote rifiutò incarichi prestigiosi presso famiglie nobili, come quella della marchesa Barolo, che gli offrì 600 franchi al mese per la gestione delle sue opere. Un giorno però la marchesa gli pose l’aut aut: o le sue opere o i vagabondi. Don Bosco allora, scelse un altro prete per quelle opere, continuando ad occuparsi lui dei 300 ragazzi del suo oratorio “ambulante”. Egli visse le tentazioni del deserto: pur avendo conosciuto la fame, rifiutò il luccichio del denaro e si rivolse a San Giuseppe Cafasso, suo padre spirituale, chiedendogli quale strada lo attendeva. Cafasso lo portò quindi a fare apostolato nelle carceri,  un mondo con il quale don Bosco ebbe un impatto traumatico. Fu proprio lì che comprese per la prima volta la necessità di un “sistema preventivo” che arginasse quella marea di carcerati. Don Bosco scriveva che le sbarre non erano solo quelle fisiche del carcere ma anche quelle morali dell’ignoranza, del non-senso, della disperazione, del non sentirsi amati. Ai giovani diceva: “io sono per voi notte e giorno, mattina e sera”. Scelse la ‘parte migliore’, il futuro, la gioventù. Mentre Marx, negli stessi anni, proclamava: “proletari di tutto il mondo, unitevi”, don Bosco richiamava alla stessa unità i giovani, in nome di una rivoluzione; non della rivoluzione cruenta marxista ma della rivoluzione cristiana, che nasce nel cuore.
Quali sono, a suo avviso, i pilastri dell’educazione di don Bosco?
I pilastri sono la ragione, la religione e la ragionevolezza. Li ho approfonditi nel mio libro Don Bosco e l’uomo. Per don Bosco, ragionare, significa motivare, mai imporre: un concetto ai tempi non scontato.
Don Bosco parla molto anche di amorevolezza: auspica un amore che si adatta all’altro, che parte dal desiderio dell’altro e dal vero bisogno dell’altro. “Bisogna che l’altro si senta amato: è allora che vi accetterà e diventerà vostro amico”, diceva. L’amorevolezza, la tenerezza si adattavano a tutte le sue esigenze.
Oggi viviamo una sorta di “glacializzazione dello spirito”: per questo c’è bisogno di tanta amorevolezza a livello familiare, sociale, ambientale, per non parlare dell’ambito politico. Ovunque io vada, non posso non amare ma bisogna anche vedere cosa amo: i peccatori, ad esempio, amano se stessi, mentre la vera felicità è uscire da se stessi. Don Bosco è riuscito in questo perché era un santo. Egli concepiva la santità come intercambio tra educazione e unione con Dio: si educa evangelizzando, si evangelizza educando.
Un giorno che era in compagnia di varie persone, don Bosco vide un ragazzo povero intento a spingere un carretto in salita. Lasciò tutto e tutti per aiutare quel giovane. Questo episodio è emblematico di quanto don Bosco abbia aiutato i giovani poveri a portare il “carretto della vita”. Oggi i giovani poveri e abbandonati sono a migliaia in tutto pianeta. Affamati di pane ma soprattutto di affetto, di senso della vita, non sanno per chi vivono ma non si può vivere senza sapere perché e, soprattutto, per chi.
 
Com’è nato il movimento Testimoni del Risorto, da lei fondato?
L’espressione “testimoni del risorto” non è mia ma si trova nel Nuovo Testamento (At 1,21). Ricordo che a 23 anni, poco prima della mia ordinazione, ebbi una grossa crisi esistenziale: cosa stavo facendo e a chi mi stavo donando? Stavo rinunciando ad una famiglia e ad altre cose che mi piacevano. Quindi, mi chiesi: la mia fede su cosa si basa, quali sono le sue fondamenta rocciose e granitiche? Mi venne allora in soccorso San Paolo: se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede e noi crederemmo in un uomo morto (cfr 1Cor 15).
Verso la fine degli anni ’70, due amici mi proposero di avviare un cammino di approfondimento della resurrezione con me, visto che gliene parlavo tanto. Io inizialmente declinai la proposta, visti i miei tanti impegni universitari. Interpellai, però, il successore di don Bosco, don Egidio Viganò, che, pur ricordandomi dei miei impegni universitari e della mia salute precaria, mi disse: “qui vedo segni di Dio, vai avanti”.
Nel 1984, quindi, nacque il movimento “Testimoni del Risorto”, con il carisma specifico di vivere in profondità e consapevolezza la novità della Pasqua del Signore Gesù ogni giorno. Nel battesimo, sacramento pasquale per eccellenza, il carisma plasma ogni appartenente, che si impegna a farsi lavorare dallo Spirito del Risorto. La novità pasquale è un modo nuovo di essere, a tre livelli antropologici: pensiero, amore e comportamento. Avere un nuovo pensiero vuol dire avere una testa nuova, cioè guardare il mondo con la mente del Risorto.
Un nuovo amore è un cuore nuovo, che solo lo Spirito Santo ci può donare e che ci ama tutti, a partire dai più poveri. Ricordo, a questo proposito di quando Madre Teresa ci chiese di fare catechesi ai laici che lavoravano alle sue opere. Lei ci diceva sempre: “Le miserie che si trovano nelle nostre case non devono farvi perdere di vista che Gesù è risorto. Amate i poveri e portate loro pane e soprattutto amore”.
Il nuovo comportamento, infine, implica un “trapianto” delle mani di Cristo in noi, per servire Cristo, la Chiesa e il prossimo, a partire dagli ultimi.
 
Come potremmo definire, dunque, l’identikit del Testimone del Risorto?
Egli è un uomo investito del carisma pasquale, che decide di rinascere ogni giorno, è un perenne nascituro che diventa ogni giorno più uomo e più cristiano. È un uomo che ogni giorno assume la logica del risorto: quella delle beatitudini, vivendo con forza, alla luce dello Spirito, la Pasqua del suo quotidiano. È un uomo che si sente amato di un amore sicuro e duraturo, quindi, con una gioia interiore che nessuno gli può strappare, nemmeno nell’ora della prova, della tribolazione e dell’incomprensione.
Il Testimone del Risorto è un laico che vive nel mondo e veicola le beatitudini evangeliche, mettendo al centro la carità: sa amare come Cristo ama, nella famiglia, nella scuola, nel lavoro professionale, nella gestione economica, nell’attività politica, nel tempo libero. L’uomo pasquale, in questo spirito, coniuga tre verbi: sognare un futuro più umano, segnare un presente più responsabile, seminare un campo più fecondo. È caratterizzato da una novità più costante: dalla paura al coraggio, dal formalismo all’autenticità, dall’utilitarismo alla gratuità, dall’individualismo alla comunità, dalla comodità al dinamismo, dal pessimismo nero all’ottimismo vero e fondato, dalla protesta sterile all’impegno operoso, dalla rassegnazione all’azione, dalla meschinità alla generosità, dal puro commuoversi al vero muoversi, dal servirsi degli altri al servire gli altri, dalla disperazione alla speranza fondata. Dall’avere di più all’essere di più, dal peccato alla grazia. Dall’io a Dio.
Il testimone del Risorto è come un discepolo di Emmaus dei nostri giorni, che prende esempio da Gesù, spezzando il pane, ovvero ciò che ha, per darlo ai più poveri dei poveri. Ogni giorno ci troviamo col biglietto di andata verso Emmaus ed ogni giorno il Risorto ci dà quello del ritorno a Gerusalemme.
Come si è tradotto in realtà il vostro carisma?
Il movimento Testimoni del Risorto ha avuto la grazia di innestarsi nella grande famiglia salesiana il 25 marzo 1999, non casualmente solennità dell’Annunciazione del Signore. Nella lettera di ammissione che l’allora rettor maggiore, don Edmundo Vecchi, ci consegnò, emergeva il carisma di don Bosco la spiritualità della gioia pasquale, l’attenzione ai meno privilegiati, ai poveri, ai giovani e alle famiglie. Definirei il movimento una “famiglia di famiglie”, che mette insieme più generazioni. Il movimento ha infatti dato vita a un percorso specifico di spiritualità coniugale, una formazione permanente che è una vera palestra di vita. Dopo il Giubileo del 2000, abbiamo anche rilanciato la via lucis, come forma di devozione popolare, in grado anch’essa di trasformare la società di oggi da conflittuale in conviviale.
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Per info e approfondimenti: http://www.testimonidelrisorto.it/
 
 
 

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Luca Marcolivio

Roma, Italia Laurea in Scienze Politiche. Diploma di Specializzazione in Giornalismo. La Provincia Pavese. Radiocor - Il Sole 24 Ore. Il Giornale di Ostia. Ostia Oggi. Ostia Città (direttore). Eur Oggi. Messa e Meditazione. Sacerdos. Destra Italiana. Corrispondenza Romana. Radici Cristiane. Agenzia Sanitaria Italiana. L'Ottimista (direttore). Santini da Collezione (Hachette). I Santini della Madonna di Lourdes (McKay). Contro Garibaldi. Quello che a scuola non vi hanno raccontato (Vallecchi).

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