Michael Paul Gallagher scriveva che «la teologia ha un disperato bisogno di imparare dal linguaggio della poesia più che dal suo contenuto». I poeti – quelli veri – hanno un ché di misterioso, mistico direi. E gli scritti di Rainer Maria Rilke fanno di lui un pioniere eccezionale della categoria. Ci si ferma davanti ai suoi testi persi e raccolti davanti a un’immensità di significato. Da qui la preziosità di un testo personale che permette una prospettiva in più sull’interiorità del poeta. Si tratta del testo di dieci lettere che Rilke, con dedizione e serio, ha consacrato a un giovane aspirante scrittore poeta, Franz Xaver Kappus.
Il testo, edito da Qiqajon, con il titolo Lettere a un giovane consta di una prefazione di Enzo Bianchi, le dieci lettere e altre lettere e scritti incluso un estratto dal testamento del poeta.
Nel rivolgersi al giovane – e le lettere sono risposte sollecitate dalle domande del Kappus – Rilke tocca diversi temi che bruciano nei cuori giovani: l’amore, la sessualità, Dio, il “mestiere” dello scrittore, l’arte. Si tocca con mano in questo testo la profondità e la densità personale che stanno dietro all’opera letteraria del poeta praghese. Il suo invito primario, infatti, è quello di rivestire in pieno e vivere la propria umanità. L’appello non è a un intimismo sfrenato e ripiegato, ma a una presa di coscienza dei propri aneliti per mettere a frutto le proprie potenzialità. Il suo è un invito pindarico: «Diventa ciò che sei».
Il consiglio parte da un contesto preciso, quello dell’aspirante poeta preoccupato dal parere della critica. Rilke, invece, lo invita a rispondere all’appello che risuona nella sua interiorità: «Lei sta guardando verso l’esterno, ed è proprio ciò che non dovrebbe fare. Nessuno La può consigliare né aiutare: nessuno. C’è un modo solo: vada in se stesso. Esplori la ragione di fondo che La chiama a scrivere; verifichi se essa diffonde le proprie radici nel più profondo del Suo cuore. Confessi a es stesso: se Le fosse impedito di scrivere, ne morirebbe? Questo, prima di tutto: si chieda, nelle ore più silenziose della Sua notte: io devo scrivere? Scavi dentro di sé, alla ricerca di una risposta profonda… la Sua vita, persino nelle ore più indifferenti e umili, deve diventare un segno e una testimonianza di questa tensione».
E aggiunge: «E, se da questo rivolgersi verso l’interno, da questa Sua immersione nel mondo individuale che appartiene solo a Lei, sorgeranno dei versi, allora non Le verrà in mente di chiedere a qualcuno se saranno dei buoni versi. E Lei non tenterà più di interessare le riviste a questo Suo lavoro: perché lo vedrà come qualcosa di amato, di naturalmente Suo, una parte e una voce della Sua vita. Un’opera d’arte è buona, quando è sorta dalla necessità».
Il consiglio in termini stretti è un agostiniano entrare in sé – in te ipsum redi – per «scaturare la profondità da cui scaturisce la propria vita». E in quella intimità tollerare il peso della solitudine per generare la propria opera perché «nelle realtà più intime e degne di attenzione, siamo indicibilmente soli». Siamo chiamati alla pazienza, soprattutto alla pazienza della crescita e del vedere i frutti. Ogni crescita vera, infatti, deve arrivare da dentro, dal profondo e non può essere forzata in tempi che non sono i suoi. «Tutto è gestazione; solo più tardi, nascita».
Così è – per chiudere – anche il discorso sull’amore. Pur riconoscendo la crucialità del tema nella vita di un giovane avvolto da quesiti e desideri di sperimentare e di ricevere, Rilke non cede a facilonerie e insiste che per imparare l’amore occorre imparare molto altro, occorre districarsi bene nel regno della volontà e della pazienza.
Coniugare l’amore con la sessualità è un’arte faticosa, però – ribadisce il poeta – «è faticoso tutto ciò che ci è stato dato in sorte; è faticoso quasi tutto ciò che è importante, e tutto è importante». Imparare ad essere all’altezza dell’amore e del volto umano della sessualità è parte dell’impresa di umanizzazione affidata a ogni uomo, altrimenti la gioia dei corpi viene ridotto a «uno stimolante nelle ore stanche della vita» o a «una distrazione, anziché una realtà che ci unifica per i momenti più alti».