È il 1205 e S. Francesco è appena tornato ad Assisi, dopo la notte unica, e spiritualmente rivoluzionaria di Spoleto. Nei tre anni che seguiranno, tutto cambierà davanti agli occhi di questo ragazzo di circa 24 anni. Il mondo stilla misericordia da ogni angolo, la pace feconda ogni zolla della terra, qualsiasi vita è un privilegio, le cose piccole sono le più amate e niente può essere più bello di così. Francesco si lascia avvolgere dalla “Presenza” e giorno dopo giorno diventa sempre più dorato, proprio come il grano maturo.
Si commuove per tutto ciò che è piccolo ed indifeso e un fiume di compassione gli fa guardare con occhi nuovi, poveri e lebbrosi. Il padre lo coinvolge nella sua bottega, gli amici gli vogliono rimettere in testa la corona del re delle feste ma Francesco non vede più il mondo come prima. La notte di Spoleto lo ha reso distante dal mondo ed innamorato di Dio. Lo cerca senza poterne fare a meno e tutto il resto gli sembra inconsistente.
Quando Dio sceglie un profeta, sa bene che lo deve inondare con la sua Presenza, seducendolo. Come il profeta Geremia, anche Francesco può dire: “Tu mi ha sedotto mio Signore ed io mi sono lasciato sedurre da te”. Il Re dell’Universo lo chiama a sé, lo riempie di dolcezza, lo nutre col miele, lo incendia col fuoco, lo modella fino a fargli prendere la forma di un “alter Christus” e poi lo restituisce a un popolo innumerevole.
È importante capire questo suo movimento interiore: non furono i poveri e i lebbrosi a farlo avvicinare a Dio, ma Dio diede a Francesco occhi nuovi, per fargli abbracciare i piccoli e i deboli. Negli ultimi giorni della sua vita, ricordando con riconoscenza nel suo testamento gli anni della sua conversione, scriverà: “Il Signore mi condusse tra i lebbrosi e usai con essi misericordia”. Così dunque trovò prima il Signore e fu poi il Signore a condurlo per mano tra i lebbrosi, e non viceversa.
In questo Giubileo della Misericordia, lasciamoci condurre dalla misericordia di Dio tra le ferite nostre e degli altri e diciamoGli: “Guariscici Tu!”. Le ferite (del corpo e dell’anima) non sono belle da vedere, ai nostri occhi. Noi creature umane vogliamo circondarci solo di cose affascinanti e sane. Abbiamo paura che la malattia ci travolga al solo guardarla e temiamo che le ferite degli altri rendano brutti e soli anche noi. È un atteggiamento istintivo e naturale. Anche Francesco ce l’aveva.
La sua paura dei lebbrosi, poi, era drammatica. Il senso di schifo di fronte all’odore della malattia, era irrimediabilmente lì. Non lo lasciava mai. Avrebbe voluto superare quella ripugnanza, ma non ce la faceva. Era tutto più forte di lui. Gli “ammalati del buon Dio” se li teneva a distanza, tanto che “nell’intravedere da lontano, a uno o due miglia di cammino, le case dei lebbrosi, si tappava il naso con le mani”. Avrebbe voluto esser diverso, ma proprio non ci riusciva. Chissà come e quante volte, Francesco chiese a Dio di aiutarlo a voltar pagina su questo contraddittorio capitolo del suo mondo interiore. Voleva amare Gesù in tutti, ma…
Un giorno, deciso a cancellare quel suo “ma”, facendo un giuramento solenne: avrebbe preso tra le sue braccia il primo lebbroso che avrebbe incontrato nel cammino. E Dio, a cui piacciono i figli combattenti, non fece attendere Francesco e gli porse la prova del fuoco su un piatto d’argento. Un giorno, mentre cavalcava verso Foligno, improvvisamente si imbattè in un lebbroso che gli tendeva il suo braccio putrefatto. Francesco sentì subito quel primo impulso così familiare: il sangue ribolliva in tutto il corpo, il disgusto inondava la sua testa e tutti i suoi istinti di rigetto gli gridavano di scappare.
Ma una parola gli risuonava dentro: “Francesco, ciò che è ripugnante si tramuterà in dolcezza”. Il Re del mondo glielo aveva promesso. Ricordava bene quella risposta divina alla sua invocazione di poco tempo prima. Scese da cavallo e, come chi cerca di finire il prima possibile quella prova tremenda, si avvicinò al lebbroso. La guancia putrefatta di quel “fratello cristiano” era lì, davanti ai suoi occhi e lui … la baciò. Lo baciò con forza, una e più volte. Poi lo abbracciò, gli baciò le mani, gli diede la sua elemosina e con un “Il Signore sia con te” lo lasciò, allontanandosi a cavallo.
Aveva superato la prova del fuoco ed il suo Signore gli diede ciò che gli aveva promesso. Fatti pochi metri, infatti, un oceano di dolcezza bagnò, ad ondate, il suo cuore. Le sue vene erano fiumi di miele, il suo cervello una fontana di tenerezza ed il suo cuore straripava amabilità. Durante la sua agonia, ricordando quel momento, Francesco affermerà di aver sperimentato “la maggior dolcezza dell’anima e del corpo”. Francesco considererà questo avvenimento il punto più alto del suo processo di conversione.
La chiesa romanica di Santa Maria Maddalena (a circa un chilometro dal santuario di Rivotorto, lungo la strada che porta a S. Maria degli Angeli)) sembra sorga proprio nel luogo di questo famoso incontro tra Francesco e il lebbroso. “La misericordia divina è una grande luce di amore e di tenerezza, è la carezza di Dio sulle ferite dei nostri peccati” ha detto Papa Francesco il 7 aprile 2014.
“Dio perdona non con un decreto, ma con una carezza, carezzando le nostre ferite del peccato… È grande la misericordia di Dio, è grande la misericordia di Gesù. Perdonarci, carezzandoci!”. Ecco perché Francesco ha baciato ed accarezzato quel lebbroso: Dio lo ha spinto a fare quel che Lui fa tutti i giorni con noi.