Bergoglio in Africa, nei tre paesi in cui emergono i drammi di un Continente

Intervista a mons. Barthélemy Adoukonou, segretario del Pontificio Consiglio della Cultura, sull’imminente viaggio del Papa in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana 

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Nato nel 1942 nel Benin, discendente di famiglia reale, Barthélemy Adoukonou è dalla fine del 2009 segretario del Pontificio Consiglio della Cultura, primo africano a rivestire tale incarico. Studia a Parigi, poi a Ratisbona (in teologia, dove è dottorando del professor Joseph Ratzinger), infine alla Sorbona (altro dottorato in lettere e scienze umane). Sacerdote dal 1966 (ordinato dal cardinale Agagianan), è vescovo dal 2011. È stato tra gli 11 presuli africani (tra cui 7 cardinali) che hanno contribuito al recente volume presinodale intitolato “Africa, la nuova patria di Cristo”, in italiano stampato da Cantagalli. Lo incontriamo nel suo ufficio a via della Conciliazione e ne è nato un colloquio ad ampio respiro su alcuni aspetti del prossimo viaggio apostolico di papa Francesco in Africa.

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Mons. Adoukonou, in questi primi due anni e mezzo alcuni hanno avuto l’impressione che per Papa Francesco l’Africa non fosse una priorità, privilegiando il Pontefice argentino soprattutto l’America latina. Impressione o realtà?

Penso piuttosto che il primo viaggio di Papa Francesco sia stato di andare in direzione dell’Africa, laddove l’Africa sofferente gli dava appuntamento, magari senza rendersene conto…L’Africa che sogna l’Europa come un Eldorado e cerca di raggiungerla. Ebbene il Papa è andato a Lampedusa. Uno dei nostri maggiori pensatori africani, Fabien Eboussi Boulaga, parla dell’ “essenza fondata sulla diaspora” dell’Africa: l’Africa si può scoprirla al di fuori di se stessa, quando esce verso l’altro, inteso come Occidente. C’era appena stato uno dei tanti naufragi e il Papa è  voluto andare a ricordare i morti e a salutare e incoraggiare i sopravvissuti. Penso però che poi forse è l’Africa a non aver corrisposto alla sua essenza fondata sulla diaspora, perché le conferenze episcopali africane non hanno dato sufficiente eco all’appuntamento che il Papa dava loro. Hanno parlato poco e avrebbero invece dovuto farlo di più, non foss’altro che per salutare e ringraziare un Papa che nel suo primo viaggio aveva voluto incontrare l’Africa sofferente.

Tra pochi giorni Francesco sarà su suolo africano. Ha scelto tre Paesi con caratteristiche diverse: il Kenya, l’Uganda e la Repubblica Centrafricana… 

Ha scelto tre Paesi in cui emergono i grandi drammi africani. Nel Kenya troverà l’Africa che cerca di essere accogliente verso i propri figli costretti a fuggire dalla guerra, dall’aggressione degli Shabab islamici provenienti dalla Somalia. In Uganda Papa Francesco va sulle tracce dei martiri uccisi a fine ‘800 e canonizzati nel 1964 da Paolo VI, che nel 1969 fu pellegrino nel Paese e invitò tra l’altro i fedeli a un ‘cristianesimo africano’, autoctono. “Ormai voi stessi siete missionari”. Devo ricordare con riconoscenza che papa Montini per l’Africa è stato un grande Papa, che non sarà mai dimenticato. Terzo e ultimo Paese che raggiungerà Papa Francesco è la Repubblica Centrafricana, travagliata da più di due anni da una sanguinosa guerra civile. Voci si sono levate per chiedere che il Papa rinunci alla visita data la situazione, ma io sono persuaso che il Santo Padre ci andrà proprio perché la situazione è grave, perché è un luogo di persecuzione dei cristiani in cui c’è tanto bisogno di giustizia, riconciliazione e pace. Questo atteggiamento è parte integrante della sua vocazione di papa proveniente dalle periferie, che ha già dato la priorità all’Africa sofferente di Lampedusa.

Proprio nella Repubblica Centrafricana il Papa  aprirà il 29 novembre – in anticipo rispetto alla data ufficiale dell’inizio del Giubileo (8 dicembre) – la Porta Santa della cattedrale della capitale Bangui…

È formidabile! È il Papa della Misericordia e prolunga così l’insegnamento di Giovanni Paolo II per il quale il nome di ogni africano è inscritto nelle mani trafitte del Crocifisso, come si legge nell’esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa n°143. Papa Francesco, aprendo la Porta Santa a Bangui, dà ancora una volta la priorità all’Africa e io sento tanta emozione, gioia e riconoscenza per questo gesto. 

Tra i temi principali del viaggio apostolico i rapporti tra cristiani e musulmani in Africa. Si può pensare che tali rapporti si siano molto aggravati in questi ultimi anni a causa dell’aggressività di determinati gruppi islamici come gli stessi Shabab somali cui Lei accennava poco fa? Per non parlare di Boko Haram in Nigeria…

Sì, è evidente che la situazione si è aggravata, è una constatazione. Mi sembra importante sottolineare che Boko Haram  se la prende barbaramente già nel nome che porta “l’istruzione occidentale è proibita”) con la civiltà occidentale cui gli africani oggi sono iniziati. Boko Haram afferma che la civiltà occidentale è senza legge né fede. Da parte mia vorrei che l’insieme dei credenti del Continente evidenzi in un progetto educativo chiaro come intende correggere l’ateismo e il secolarismo dell’odierna civiltà occidentale.

Lei crede che si possa ancora riuscire a raddrizzare la situazione, evitando che il peggioramento divenga irreversibile?

Sì, tramite l’educazione. Un po’ dappertutto sono sorte e continuano a sorgere iniziative per un’educazione interculturale, fondata sul dialogo interreligioso. Da noi, nell’Africa occidentale,  abbiamo creato un forum di dialogo tripartito: già nel 2007 abbiamo organizzato un grande colloquio su Cristianesimo e Islam, con una relazione molto interessante di mons. Kaigama, attuale presidente della Conferenza episcopale nigeriana. Mi ricordo un’affermazione del rappresentante musulmano: “Oggi ci giungono dall’Arabia Saudita e altri Paesi teorie che ci incitano alla violenza contro i cristiani, ma noi – sulla base della nostra cultura tradizionale africana – resistiamo”. Per la prima volta avevamo inteso questo da un musulmano. Ma nella natura degli africani è inscritto il genio della coesistenza, come è dimostrato ad esempio da quanto è successo in Senegal, dove i musulmani, maggioritari, sono sempre stati i principali sostenitori del presidente cristiano Léopold Senghor.

Vuol dire che la violenza religiosa viene dall’esterno?

Sì, non è nostra, non è africana. Ci viene dall’esterno. L’educazione interculturale che abbiamo promosso e che promoviamo mira proprio a costituire un’alternativa valida alla violenza dei gruppi estremisti di matrice araba. Violenze come in Nigeria, con Boko Haram, che hanno una natura originaria politica: come dicono i nigeriani mons. Kaigama e il cardinale Onaiyekan le religioni tra loro non sono in guerra.

La violenza è venuta dall’esterno… ma oggi non ha messo qualche radice anche nell’Africa sub sahariana?

Certo oggi si sviluppano focolai di violenza africana, ma non riusciranno a radicarsi sul nostro continente se riusciremo a contrastarli con un’educazione adeguata. No, non hanno ancora messo radici. La nostra coesistenza tra cristiani, musulmani, religioni tradizionali africane dura da secoli: non è così facile sradicarla! Dappertutto – e non solo in Paesi come il Senegal e il Benin – coltiviamo la cultura della pace e del rispetto reciproco tra religioni.

Durante i due Sinodi per la famiglia del 2014 e del 2015 i vescovi africani hanno sollevato con forza il problema del ricatto cui sono sottoposti i Paesi del Continente da parte di diversi Stati occidentali e di grandi organizzazioni internazionali. In sintesi dicono gli ‘occidentali’e agenzie dell’Onu o di carattere economico-finanziario: “Noi vi aiutiamo economicamente a patto che voi introduciate nelle vostre leggi il diritto all’aborto e i cosiddetti ‘matrimoni omosessuali’. Il tema appare come forte denunc
ia – approvata a grande maggioranza dai padri sinodali – di un atteggiamento inaccettabile anche nelle relazioni finali dei due Sinodi…

È un problema molto serio. I vescovi africani hanno evidenziato per iscritto anche recentemente a diversi Capi di Stato e alle organizzazioni internazionali il ricatto ideologico cui sono sottoposti i Paesi africani per ricevere aiuti essenziali per la loro sopravvivenza. I vescovi africani sono la coscienza del Continente e la coscienza anche dell’intera umanità. La storia ricorderà che ci sono stati uomini che hanno rifiutato il denaro offerto a condizioni inaccettabili da chi vuole ancora colonizzare l’Africa, sovvertendone le fondamenta antropologiche. I vescovi africani lo gridano ad alta voce, ai politici e a tutti quelli che vogliono ascoltare. Vogliamo essere noi africani i protagonisti dell’educazione dei nostri figli. Non devono essere certi occidentali i nostri maestri: hanno fatto una scelta contro Dio e non ce la possono imporre. Non vogliamo che sia deturpata la persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio. L’ideologia del gender che si vuole imporre contende a Dio l’atto creatore, banalizzando o cancellando la sessualità iscritta da Dio nella natura umana. Non possiamo accettare la distruzione dell’uomo. Siamo contro, non possiamo essere d’accordo con chi la vuole, contro Dio, attraverso la colonizzazione ideologica gender.

A fine luglio il presidente statunitense Barack Obama ha visitato il Kenya, Paese d’origine di suo padre, e ha annunciato per l’occasione un grande programma americano di investimenti per l’Africa, in cui è compresa anche la formazione di 24mila giovani africani, presumibilmente i dirigenti dell’Africa del futuro.

Certo vuole condizionare il futuro dell’Africa formando a suo modo, all’americana, la nuova gioventù . Giovanni Paolo II domandava agli Stati africani di fare di tutto per salvare la loro cultura, poiché essa è l’elemento più importante della sovranità nazionale. Ricordava papa Wojtyla che il suo Paese aveva dovuto subire i lunghi anni dell’oscurantismo comunista, ma era stato salvato prima di tutto dalla cultura che era riuscito a conservare gelosamente. Dobbiamo incrementare e rafforzare la nostra azione educativa. La Chiesa non può e non vuole sottrarsi al compito di formare le nuove generazioni. Non può e non vuole tacere che l’attuale progetto occidentale in certe sue forme è senza Dio e contro Dio. Il nostro progetto africano è aperto a Dio, si fonda su Gesù Cristo e rispetta e valorizza la persona umana nella sua dignità. Gli americani? Certo hanno il denaro, possono formare i nostri giovani. Ma anche noi lavoreremo sempre più sul terreno per concretizzare tra i giovani il nostro progetto, perché una cultura senza Dio è inevitabilmente una cultura contro l’uomo. La storia giudicherà: loro hanno il denaro, ma non sono i signori della Storia. E noi contiamo su Dio, che della storia è il solo Maestro.

Ritorniamo per concludere al viaggio apostolico di Papa Francesco. Come sarà accolto il Santo Padre?

Lo ripeto: lo accogliamo con grande gioia. Diceva Benedetto XVI che l’Africa è un polmone e la speranza dell’umanità. E’ un polmone che si fonda socialmente sulla famiglia come elemento portante della comunità, è un elemento che non si può distruggere se si vuole promuovere la persona umana. Voi occidentali ci avete portato Gesù Cristo. Purtroppo oggi da voi la fede è in caduta libera e di Gesù Cristo si crede di poter fare a meno. Noi invece vogliamo fondarci su Gesù Cristo, su un’umanità basata sul suo modello: e noi saremo con voi per rievangelizzare l’Occidente divenuto apostata e impegnato con forza a modellare un individuo fondato sul contrario di ciò che ci ha proposto Gesù nella sua persona. Questo Occidente oggi non raramente presenta un paesaggio desolato di macerie cristiane. 

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[Fonte: RossoPorpora]

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Giuseppe Rusconi

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