Tutti noi oggi, insieme a Pilato, chiediamo a Gesù: “Sei tu il Re dei giudei?”. Coraggio, non scandalizzatevi, è proprio così. Si chiude l’anno liturgico, è tempo di bilanci. E tra gli uomini, spesso, i bilanci si fanno sotto forma di processi. Proprio come quello a cui è stato sottoposto Gesù al termine del suo “anno terreno”. Stava per inaugurare una cosa nuova, ma doveva passare attraverso quello scrutinio.
La domanda di Pilato è la stessa che gli ha rivolto il Sommo Sacerdote: la risposta di Gesù gli è costata la condanna. Ma è anche la domanda che, come un fiume carsico, lo ha inseguito durante tutta la sua vita, sin dalla nascita: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (Mt. 2,2).
Per rispondere a questa domanda, infatti, Gesù “è nato ed è venuto nel mondo”. E per questo, lo ripeto, non scandalizzatevi, ogni liturgia eucaristica in fondo è anche il rinnovarsi dello stesso processo al quale il Sinedrio e Pilato ha sottoposto Gesù. La messa è il memoriale del sacrificio di Gesù, no? E’ il compiersi, qui ed ora, del suo Mistero Pasquale, e in esso, centrale, è stato il processo.
Voglio dire che ogni domenica anche noi ci affacciamo in Chiesa con la stessa domanda nel cuore: “Sei tu il Re dei Giudei?” gli abbiamo chiesto mille volte, presentandogli quello che dice di essere il suo regno: il matrimonio, i figli, il lavoro, la salute, perfino la Chiesa… Rovine su rovine, e questo sarebbe il tuo regno? Ecco fratelli, più o meno così arriviamo ogni domenica a messa. Una settimana di problemi, ingiustizie, angosce e dolori come bagaglio.
È passata solo una settimana dalle stragi di Parigi, ma i media continuano a bombardarci, e la paura copre come una coltre oscura le nostre giornate. “Sei tu il Re dei giudei?”, perché guarda che qui regna tutt’altro sovrano. Innanzitutto la paura, e non è proprio possibile continuare così: ci vogliono togliere il piacere di una pizza con gli amici, di una partita di calcio, di un film o una visita a un museo. Non possiamo tollerare di vivere così.
Beh, è del tutto ragionevole, anche se mi sembra che ci stiamo perdendo qualcosa. La “paura” è il frutto del peccato, come quella che, insieme alla vergogna, ha provato Adamo che per questo si è nascosto. Prima di peccare non conosceva né vergogna né paura. Quindi, se i terroristi riescono ad impaurirci significa che stanno ridestando quei sentimenti che, per non scomodare la coscienza, abbiamo anestetizzato da tanto tempo con alienazioni varie.
Ed ecco che la prima parte della domanda ha già trovato una risposta. Vorremmo giudicare il Signore per averci ingannato circa la sua regalità, e invece proprio lasciando ogni uomo libero di fare il male ci sta svegliando dal torpore maligno in cui eravamo scivolati. Abbiamo paura? Bene, significa che siamo peccatori; che abbiamo paura di morire, quindi, pur andando a messa, la morte in noi è ancora stata vinta. Siamo schiavi della menzogna del demonio che usa proprio la nostra paura per farci fare quello che vuole.
Accidenti, dalle bombe di Parigi siamo arrivati dritti dritti nel Giardino dell’Eden, davanti al solito albero, dove il serpente ci ha sedotto con la sua menzogna: Dio non ci ama perché non ci fa giustizia, anzi, Lui stesso è ingiusto. Quindi il suo Figlio non è il Re che afferma di essere, ma un dittatore spietato incapace di regnare secondo i nostri, umanissimi, criteri.
Accettiamolo fratelli, stiamo mettendo sotto processo Gesù, come ha fatto Giobbe con Dio. Il nome Giobbe, infatti, significa “Dov’è mio padre? Dov’è il Dio che mi protegge?”. Nel Libro omonimo risuona spesso la celebre “lammà” – perché? – tipica delle lamentazioni.
“Perché” la morte? “Perché” la vita? Se lo chiede mille volte Giobbe, giungendo a dire: “Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda!” (Gb 31,37). Giobbe si trova in piedi proprio come in un tribunale (i termini usati sono quelli classici della giurisprudenza): si crede giusto, e aspetta il giudice che ha citato in causa.
Giobbe non accetta la sua situazione, non entra nella sua testa religiosa che l’innocente possa soffrire. No, non è possibile quello che mi sta accadendo: “Sei tu il Re dei Giudei?”, che è come chiedersi se c’è ancora speranza per la mia vita o è destinata a precipitare in questo regno di morte del quale sento impietoso il fetore? E’ possibile che quest’uomo flagellato e coronato di spine sia un re capace di salvarmi?
Vediamo. Dopo la maledizione del suolo a causa del peccato, la terra ha cominciato a produrre spine e cardi, a significare l’aridità, la fatica e il dolore che seguono l’orgoglio. E Gesù si presenta davanti a Pilato e a ciascuno di noi coronato proprio di spine: le conseguenze dolorose del peccato sono sul suo capo il segno della sua regalità!
Che follia, che significa? Un re che si lascia trafiggere da ogni nostra parola insensata, da ogni peccato palese e nascosto, da ogni istante che avrebbe meritato la maledizione. E perché lo fa? Perché Lui è Re “da” Dio e non “dagli” uomini, secondo la lezione dell’originale greco.
Se il suo fosse un regno ottenuto “dagli” uomini, quegli stessi uomini avrebbero combattuto perché non fosse incoronato con le spine. E invece, siccome il regno gli viene “dal” Cielo, da Dio, allora viene Dio e…. E invece di difenderlo fa quello che nessuno di noi si sarebbe aspettato: lascia che gli empi gli pongano la corona di spine sulla testa. Lo consegna ai chiodi, e poi alla lancia, e alla morte e alla tomba.
Questa è la risposta di Gesù a Pilato e a ciascuno di noi. Questa è la Verità alla quale, muto e docile come agnello condotto al macello, Gesù ha dato testimonianza. L’unica Verità credibile, perché è l’unica capace di smentire e dissolvere la menzogna del demonio che ci ha indotto a dubitare dell’amore di Dio e a credere che Gesù non fosse l’unico Re con diritto e potere di governare.
Probabilmente sino ad oggi non siamo stati “dalla Verità”. Abbiamo indurito il cuore e non siamo stati capaci di “ascoltare la voce del Re”. E se non si ascolta non si può accogliere il dono della fede che Dio ha scelto di fare attraverso la predicazione. Per questo la domanda decisiva per la vita si è sempre infranta sul limite angusto della carne, sui criteri che da essa ricaviamo.
Per essi ad esempio, un regno deve disporre di legioni che ne assicurino la difesa. In questi giorni i media non fanno che parlare di questo, che cosa fare per difenderci dalla furia dei terroristi, quali strategie seguire. E giù riflessioni, analisi e approfondimenti culturali, storici, religiosi e antropologici. Ma tutti, in piccola o gran parte, fanno risuonare l’eco senza risposta della stessa domanda: “Che cos’è la verità?”. Come dire, esiste una verità assoluta? E’ la mia? E allora perché non trionfa e non annichilisce la menzogna altrui? E’ la mia religione, è la mia cultura, sono i miei valori?
Ma in fondo, ammettiamolo, sono più i dubbi che le certezze ad affiorare di fronte alle bombe che esplodono quando e dove non ti aspetti. La morte come reale e improvvisa possibilità – e il terrorismo non sta facendo altro che ricordarci che potremmo morire tra dodici secondi a prescindere dalle sue bombe… – mostra senza pietà le crepe che vergano le risposte che ci siamo dati sino ad oggi.
E oggi, di nuovo, con la corona di spine sulla testa, Gesù ci risponde, come il Padre ha risposto a Giobbe: “Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza!”; che è come dire a ciascuno di noi oggi: “dove eri quando mio Padre ha posto a fondamento della tua vita questo amore?”; “hai tanta intelligenza da aver previsto e sperato un amore così?”.
Allora coraggio fratelli, di fronte a questo amore infinito che Dio ci dona attra
verso la Chiesa che è il corpo benedetto del Re, possiamo ripetere con Giobbe: “Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere” (Cfr Gb 40,4 ss).
Possiamo convertirci, che significa accettare la realtà di peccato che ci definisce per accogliere il perdono che definisce il Re. Solo l’umiltà di un cuore contrito sa “ascoltare”, perché non è più “dalla” menzogna che lo rinchiude nell’ipocrisia, ma è “dalla” verità, dalla parte cioè di verità di cui ogni uomo è capace: quella di riconoscersi peccatori, accettando la realtà.
Chi dopo un lungo cammino di conversione nella Chiesa viene a Cristo “dalla” verità su stesso può “ascoltare la sua voce” e accogliere la sua “testimonianza”, il suo “Lammà, perché?” gridato dalla Croce per rispondere ad ogni “perché” di tutti i Giobbe dell’umanità; l’amore imporporato dal suo sangue, e in esso lavare le sue vesti perché risplendano, nel mondo, della Verità che viene “dal” Cielo.
Gesù è Re fratelli, il nostro re che fa della nostra vita il suo regno nel quale si vive nella Verità che viene “da” Dio e ridona bellezza e autenticità all’esistenza dell’uomo, sospingendo fuori la bruttezza della menzogna satanica.
Coraggio, oggi può terminare il processo con l’assoluzione degli accusatori, perché l’accusato ha rivelato con la sua testimonianza d’amore di essere il nostro Re che ci accoglie nel suo Regno attraverso la porta regale della misericordia. Sì, possiamo regnare con Lui, basta “ascoltare” umilmente la predicazione della Chiesa e nutrirci della Verità che si fa cibo per noi nei sacramenti.