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La pornografia nuoce alla salute

La medicina e le neuroscienze confermano l’estrema dannosità cerebrale del consumo di pornografia

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Secondo il portale di notizie Religionlibertad.com dello scorso 30 ottobre 2015, il fenomeno della pornografia e del suo consumo non può lasciare indifferenti. Infatti le statistiche riportano alcuni dati interessanti: il 25% del traffico in Internet avrebbe carattere pornografico, sarebbero circa 4 milioni i portali dedicati alla pornografia e sarebbero oltre 146 milioni le pagine virtuali visitate ogni giorno e classificate come “pornografiche”. E che dire del giro di denaro legato alla mercificazione del corpo umano e della sessualità? Si stima che il fatturato annuo della pornografia online si aggiri all’incirca attorno alle dimensioni dei 100mila milioni di dollari. Questo “negozio” batte di gran lunga qualsiasi grande marchio come Google, Facebook, Microsoft, ecc.

Si sente affermare che “il porno aiuta i giovani a maturare”, e che “guardare immagini o video di carattere pornografico è indifferente per la salute delle persone”. Ma che cosa ci dicono oggi le scienze empiriche? In particolare, le neuroscienze? Che valore neuroscientifico hanno queste ultime affermazioni? Godono di un riscontro valido a livello degli ultimi studi sul nostro cervello?

Due recentissimi studi neuroscientifici, pubblicati rispettivamente a marzo e a settembre di quest’anno, fanno il punto della situazione su quest’intricato e intrigante argomento neurobioetico: quello della cosiddetta dipendenza dalla pornografia, nota anche con il termine divulgativo di “cybersex addiction”.

Il primo studio, in ordine cronologico, è stato pubblicato sulla rivista specializzata Journal of Behavioral Addictions a marzo. Il lavoro, intitolato nell’originale inglese “Getting stuck with pornography? Overuse or neglect of cybersex cues in a multitasking situation is related to symptoms of cybersex addiction”, a firma di J. Schiebener , C. Laier e M. Brand, parte da un primo dato di fatto: la maggior parte delle persone fanno uso di Internet in modo funzionale, cioè riescono a mantenere un controllo su questa tecnologia di interfaccia virtuale con il cyber-mondo.

In altre parole, gli individui “normali” si servono di Internet per obiettivi scelti e per scopi pianificati, piuttosto che “venir usati” da questa tecnologia. Questo controllo si traduce nell’effettiva capacità di alternare l’uso di Internet ad altre attività (come, impegni di lavoro, rapporti affettivi, etc.), secondo una finalità scelta, pianificata, diremmo, controllata razionalmente e volontariamente dalla persona.

Ma c’è un secondo dato di fatto: alcuni individui fanno uso, in modo “dipendente” (addicted), di contenuti cyber-sessuali, che includono materiale pornografico. Questo comporta ingenti conseguenze negative nella loro vita personale e nell’ambito lavorativo, come sostengono gli autori di questo lavoro.

Uno dei diversi meccanismi alla base di queste ripercussioni negative del consumo di materiale pornografico può comportare la riduzione del controllo esecutivo (delle azioni/scelte/decisioni del soggetto) rispetto alla cognizione e al comportamento.

C’è ancora un terzo dato di fatto da considerare: negli ultimi anni è sorto un fenomeno sociale noto come “dipendenza da Internet” (Internet addiction). Nonostante non sia stato ancora inserito nell’ultimo DSM-5, la premessa già si trova nell’appendice di questo documento che parla del cosiddetto “Internet Gaming Disorder” (IGD).

Sebbene la classificazione delle “dipendenze comportamentali” sia ancora discussa, molti ricercatori sostengono oggigiorno, alla luce dei risultati neuroscientifici, che i sintomi sono comparabili con quelli delle dipendenze “tradizionali” (come quelle da sostanze).

Secondo il famoso studio di Brand e colleghi pubblicato nel 2014, una peculiarità della “dipendenza da Internet” è la perdita di controllo indotta dal consumo. La recente ricerca di marzo 2015 mira ad una miglior comprensione neuroscientifica di questa “perdita di controllo”, suggerendo che uno dei meccanismi sottesi sia proprio l’incapacità di esercitare il controllo cognitivo necessario per poter non essere “schiavi” di questa tecnologia. Ci si concentra sulla “dipendenza dal cyber-sesso”, un tipo particolare, a detta degli autori di questo studio, di “dipendenza da Internet”.

La metodologia impiegata ha coinvolto 104 volontari di sesso maschile, sottoposti a un paradigma esecutivo multitasking suddiviso in due gruppi: uomini a cui venivano mostrate foto di persone, da una parte, e dall’altra, uomini a cui, invece di fotografie comuni di persone, venivano mostrate immagini pornografiche. I risultati confermano, in primo luogo, che esiste un’associazione profonda tra alto consumo di immagini pornografiche e le ridotte capacità multitasking manifestate dei soggetti coinvolti.

Lo studio, inoltre, indica che la dipendenza dal cyber-sesso induce un ridotto controllo esecutivo negli individui affetti. Questo può condurre a comportamenti disfunzionali e conseguenze negative, particolarmente nell’ambito lavorativo, familiare e sociale, in genere. La riduzione delle capacità cognitive correlate al controllo esecutivo (come per esempio, l’attenzione, l’inibizione, i processi decisionali e la memoria di lavoro) è mediata da alterazioni a livello dell’area cerebrale denominata corteccia prefrontale (in inglese nota con la sigla “PFC”) e alcune regioni sotto-corticali, come, ad esempio, i gangli della base.

Il secondo studio di interesse neuroscientifico e culturale, decisamente il più importante, perché offre una sintesi ed analizza tutta la letteratura neuroscientifica sull’argomento della dipendenza da Internet, in particolare della dipendenza dalla pornografia. Quest’importante contributo è stato pubblicato sulla rivista Behavioral Sciences il 18 settembre 2015 con il titolo originale “Neuroscience of Internet Pornography Addiction: A Review and Update[1].

A firma di T. Love , C. Laier , M. Brand , L. Hatch e R. Hajela, l’articolo si compone di ben 46 pagine, un apparato bibliografico ingente (basti pensare alle 311 note bibliografiche che si trovano alla conclusione dello studio) che non nasconde e motiva le critiche di una certa incomprensione delle “neuroscienze della dipendenza” (addiction neuroscience) mosse nei confronti del recente DSM-5.

In primo luogo, gli autori sottolineano nell’introduzione che nell’ambito delle cosiddette “dipendenze” si sta realizzando un vero e proprio mutamento rivoluzionario di paradigma; si legge proprio così. Come mai?

Perchè con il progresso degli studi neuroscientifici, ci si sta sempre più rendendo conto che, accanto alle classiche dipendenze da sostanze (come droghe e alcol), diversi comportamenti (o stili di vita) hanno ripercussioni su meccanismi neuronali sovrapponibili a quelli alterati dalle sostanze. Questi comportamenti “dipendenti” sono in grado di rafforzare i circuiti cerebrali della gratificazione e della ricompensa, quelli della memoria, ecc.

In effetti, l’ASAM (The American Society of Addiction Medicine) nel 2011 aveva esteso la definizione di “dipendenza” includendovi sia quella derivata da sostanze, come quella da comportamenti.

All’interno di questo scenario, sebbene l’APA (The American Psychiatric Association) abbia recepito, al redigere l’ultimo DSM-5, l’introduzione delle cosiddette “dipendenze comportamentali” (behavioral addictions) accanto alle dipendenze “tradizionali” (o classiche) da abuso di sostanze, soltanto il rinominato e ridefinito “gioco d’azzardo patologico” (Gambling Disorder oggi ribattezzato nel DSM-5 come Pathological Gambling o PG) vi è stato incluso.

Di quest’ultimo è stata fornita una vera e propria nuova diagnosi detta IGD (Internet Gaming Disorder), ampiamente fondata su numerosi dati neuroscientifici di carattere strutturale, funzionale e psicologico. Ma allora, cos’è successo nel DSM-5 per quanto rigurda la “dipendenza” dalla pornografia?

Nonostante le premesse concettuali fondate su un’ampia documentazione neuroscientifica, l’APA ha deciso di affermare che l’eccessivo uso si Internet che non coinvolga il gioco online (per esempio, un’uso eccessivo dei mezzi di comunicazione sociale, come Facebook; il consumo di pornografia online) non sarebbe da considerarsi analogo all’ IGD (Internet Gaming Disorder).

Come, invece, ampiamente documentano gli autori del lavoro pubblicato il 18 settembre 2015 su Behavioral Sciences “questa decisione è inconsistente con l’evidenza scientifica esistente ed emergente”. Gli autori sostengono e dimostrano ampiamente nelle 46 pagine di questo studio tale inconsistenza conclusiva.

Dopo l’estesa raccolta e analisi della letteratura sull’argomento, gli autori concludono che le evidenze neuroscientifiche sostengono che il consumo di pornografia attraverso Internet è, insieme agli altri comportamenti dipendenti dalla virtualità, potenzialmente addittivo, comportando una de-strutturazione e de-funzionalizzazzione del cervello umano.

In definitiva, la medicina e le neuroscienze confermano l’estrema dannosità cerebrale (e perciò personale) del consumo di pornografia. I nostri stili di vita e le nostre scelte personali non sono indifferenti alla struttura e funzione del nostro cervello. È importante perciò conoscere questi dati empirici per integrarli in una visione integrale dell’essere umano (antropologia) che ci aiuti e ci guidi ad agire e comportarci in favore della salute del nostro “organo” più importante.

*

NOTE

[1] Love TLaier CBrand MHatch LHajela R, “Neuroscience of Internet Pornography Addiction: A Review and Update”, Behav Sci (Basel). 2015 Sep 18; 5 (3): 388-433. doi: 10.3390/bs5030388.

Padre Alberto Carrara, L.C., è Coordinatore del Gruppo di Neurobioetica (GdN) dell’Ateneo Regina Apostolorum (Roma) 

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ZENIT Staff

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