Il problema centrale della speculazione greca riguarda il divenire degli enti, che sembrano oscillare tra l’essere e il nulla, venire dal nulla e ritornarvi: uomini, animali, piante si generano e si corrompono.
Contrariamente a quanto affermato da Severino[1], non è vero che “il pensiero greco ha inteso il divenire come l’ondeggiare delle cose tra l’essere e il nulla”[2], perché, come abbiamo visto[3], Aristotele afferma che il divenire è il passaggio da un modo di essere in potenza a un modo di essere in atto e tutta la filosofia greca è concorde nel sottoscrivere la sentenza di Melisso secondo cui: ex nihilo nihil (dal nulla nulla).
Nel mondo assistiamo a mutazioni di carattere accidentale (es.: l’acqua prima calda, poi fredda) e sostanziale (es.: il legno, bruciato, diventa carbone), e queste ultime pongono alla riflessione problemi di difficile soluzione.
Infatti se si analizza, ad esempio, il fenomeno della combustione di un albero che diventa carbone assistiamo alla comparsa dell’albero, prima di essere bruciato, e alla sua scomparsa, dopo essere stato bruciato, e alla contemporanea apparizione del carbone. Come è stato possibile questo processo?
Secondo il pensiero di Severino il problema è facilmente risolvibile, perché il divenire è il comparire e lo scomparire degli enti, i quali sono eterni, quindi nel caso sopra riportato si dovrebbe affermare che è scomparso un albero che eternamente è ed è apparso un carbone che eternamente è.
Gli enti indagati dalla metafisica sono situati nel mondo, quindi nello spazio e nel tempo, e non si constata né è dimostrabile la loro eternità, quindi la soluzione suddetta non è accettabile.
Aristotele, filosofo realista, ha risolto genialmente il problema sul piano speculativo.
La conoscenza speculativa è una conoscenza di “riflesso”, è un vedere la realtà non in maniera diretta, ma indiretta; è come guardare un’immagine allo specchio. E’ vera conoscenza come quando riconosco la realtà degli oggetti percepiti non direttamente, ma indirettamente tramite uno specchio.
Il filosofo ha affermato la realtà di enti che non sono immediatamente presenti, cioè che non sono in atto, ma soltanto in potenza.
Gli enti immediatamente presenti sono sempre enti in atto; ad esempio: questo computer, questo libro, ecc. Non si constata, né si può constatare un ente in potenza.
Non constato cosa potrà essere in futuro questo computer o questo libro, presenti qui e ora.
Per spiegare il divenire, rispettando il principio di non contraddizione, necessariamente si deve affermare la realtà di una dimensione puramente potenziale, conosciuta in modo non diretto, ma indiretto e speculativo.
L’idea di potenza, come afferma Maritain, “non è assolutamente rappresentabile in se stessa, essa non è né un organo dissimulato nella cosa, né una determinazione prefigurata in essa come una statua che sarebbe disegnata in anticipo tramite le vene del marmo all’interno del blocco. […] Essa non è assolutamente nulla in atto, non può essere concepita in se stessa (perché allora essa sarebbe concepita come qualcosa di determinato)” [4].
L’ente in potenza “è il determinabile, il realizzabile o il perfettibile come tale, esso non è un ente, ma una reale capacità d’essere”[5]; a differenza dell’ente in atto, “che è l’ente stesso nel senso proprio del termine quanto alla pienezza così significata, o ancora il compiuto, il determinato, o il perfetto come tale”[6].
Aristotele delucida i concetti di atto e potenza con esempi chiarificanti.
Scrive:
“L’atto è l’esistere della cosa, non però nel senso in cui diciamo che è in potenza: e diciamo in potenza, per esempio, un Ermete nel legno, la semiretta nell’intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore anche colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare; diciamo invece in atto l’altro modo di essere della cosa. […] E l’atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha la vista […]. Al primo membro di queste differenti relazioni si attribuisce la qualifica di atto e al secondo quella di potenza”[7].
L’ente in potenza, non è nulla, ma non è neanche pienamente ente, ed è ciò che rende intellegibile, e quindi non contraddittorio, il divenire.
L’albero menzionato prima è diventato carbone perché poteva diventare carbone, cioè aveva in se stesso la capacità di essere carbone, capacità che non è presente in altri enti come ad esempio nei metalli, perché, come afferma Aristotele, “una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta avere potenza non implica alcuna impossibilità”[8].
Il divenire è quindi il passaggio dall’ente in potenza all’ente in atto.
E’ necessario evidenziare che il divenire è sempre il divenire di qualcosa che muta, quindi non esiste il puro divenire come sostiene Bergson.
Qualcosa (l’albero) diviene un’altra cosa (carbone).
Il divenire è propriamente il passaggio da un ente in potenza a un ente in atto. Il divenire, afferma Aristotele, “è l’atto di ciò che è esistente in potenza in quanto tale”[9].
San Tommaso, concordando con Aristotele, così scrive:
“Va […] osservato che qualche cosa è solo in atto, oppure solo in potenza, oppure qualche cosa che si trova a mezza via tra l’atto e la potenza. Ora, ciò che è solo in potenza non si muove; ciò che si trova già nella condizione di atto perfetto non si muove ma è già stato mosso; mentre si muove ciò che si trova a mezza via tra la pura potenza e l’atto, e che quindi è in parte potenza e in parte atto. […] Dunque il moto non è né una potenza di qualche cosa esistente in atto, ma è l’atto di un qualche cosa di esistente in potenza. […] Pertanto il Filosofo [Aristotele] definisce il movimento in modo convenientissimo «è l’atto di ciò che è esistente in potenza in quanto tale»”[10].
Il divenire (il moto) è propriamente il bruciarsi di un albero, il quale da albero diventa cenere; il moto non è quindi né l’albero in atto né la cenere in potenza. Il divenire è quindi una via di mezzo tra la potenza e l’atto, e, in quanto tale, una via di mezzo tra l’imperfezione (la potenza) e la perfezione (l’atto).
E’ necessario riflettere sulla descrizione del divenire data da Aristotele: “l’atto di ciò che è esistente in potenza in quanto tale”.
Il divenire è atto così come è atto l’ente compiuto; ad esempio: è atto sia l’albero presente qui e ora sia il suo incendiarsi, ma il primo tipo di atto è statico, mentre il secondo è dinamico[11].
(Il prossimo articolo sarà pubblicato sabato 21 novembre. La settima parte è stata pubblicata sabato 7 ottobre 2015)
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NOTE
[1] Vedi articolo La metafisica aristotelico-tomista. Il principio di non contraddizione secondo Severino.
[2] E. Severino, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, cit., p. 118.
[3] Vedi articolo La metafisica aristotelico-tomista. Il principio di non contraddizione.
[4] J. Maritain, Elements de philosophie, cit., pp. 174-175.
Severino nelle brano seguente sembra tentare questa rappresentazione impossibile.
Scrive:
“Abbiamo continuamente sottolineato che la filosofia greca porta alla luce un senso del divenire che non era mai reso visibile lungo la storia dell’uomo: il divenire, inteso come passaggio dal non-essere all’essere e dall’essere al non-essere, da parte delle cose o di certi aspetti. Anche quando, con Aristotele, si intende il divenire come passaggio dalla potenza all’atto, l’essere in atto non preesiste totalmente nell’essere in potenza, ma vi preesiste, appunto, solo potenzialmente. Il grande albero che sta ora dinanzi agli occhi, ricco di forme, di sfumature, suoni, odori preesiste in potenza nel seme; e questo significa appunto che la sua attuale ricchezza di aspetti non preesiste, nell’essere in potenza, così come essa è attualmente, sì che l’attualità di questa ricchezza è anche esso qualcosa di divenuto, nel senso che è passato dal non-essere all’essere, cioè dal suo essere niente al suo non essere un niente” (E. Severino, La filosofia greca, cit., pp. 215-216) .
Per affermare che la ricchezza di aspetti presente nell’albero in atto non preesiste in potenza nel seme non è necessario rappresentarsi l’albero in potenza?
[5] Ibidem, p. 174.
[6] Ibidem.
[7] Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048a-1048b.
[8] Ibidem, IX, 3, 1047a 25.
[9] Aristotele, Fisica, III, 201 a 10.
[10] San Tommaso d’Aquino, Commento alla Fisica di Aristotele, Libro 3, Lez. 2, n. 285.
[11] Aristotele usa il termine enérgheia per denotare il divenire e il termine enteléchia per l’ente compiuto.