Il nuovo umanesimo secondo Bergoglio. Per una Chiesa non ossessionata da denaro e potere

Parlando ai vescovi italiani nel Duomo di Firenze, il Papa chiede alla Chiesa di uscire e dialogare con politica e società anche “sporcandosi”. Ai giovani dice: “Costruite un’Italia migliore”. Poi cita Peppone e don Camillo

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Tre sentimenti, “umiltà, disinteresse, beatitudini”, contro due tentazioni, “pelagianesimo e gnosticismo”, per una Chiesa “inquieta”, in uscita a costo anche di essere “ferita e sporca”, però dal “volto di mamma”, sempre più vicina “agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”, in dialogo con il mondo politico e civile. Sotto lo sguardo di Cristo, fulcro del Giudizio universale affrescato dal Vasari nella cupola della bellissima Santa Maria del Fiore, Francesco parla ai vescovi e i delegati Cei di 226 diocesi italiane riuniti a Firenze per il V Convegno ecclesiale nazionale.

Proprio il tema dell’evento, “In Gesù Cristo nuovo umanesimo”, è la traccia su cui si snoda il lungo e corposo discorso del Papa. Il quale tratteggia questo umanesimo a piccole pennellate, offrendo una idea precisa di quello che la Chiesa in generale – quella italiana in particolare – deve essere e fare. “Non voglio qui disegnare in astratto un ‘nuovo umanesimo’, una certa idea dell’uomo ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei ‘sentimenti di Cristo Gesù’”, premette Bergoglio. Mette in guardia, quindi, dalla tendenza ad “addomesticare” la potenza del volto di Cristo, perché si rischierebbe di “non capire nulla dell’umanesimo cristiano” e “le nostre parole saranno belle, colte, raffinate”, ma risuoneranno “a vuoto”.

Il primo sentimento che chiede quindi il Papa è l’umiltà: “L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria ‘dignità’, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti”, afferma. Al contrario deve farne parte il disinteresse, nel senso di “cercare la felicità di chi ci sta accanto”, perché “l’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio”.  “Evitiamo, per favore, di rinchiuderci nelle strutture”, soggiunge Francesco, “il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare”. E farlo con lo spirito delle beatitudini, attraverso cui “il Signore ci indica il cammino” che porta “alla felicità più autenticamente umana e divina”. 

Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi tre tratti, afferma il Santo Padre, “dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme”. Ci dicono, cioè, “che non dobbiamo essere ossessionati dal ‘potere’, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa”. “Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza”, esclama il Vescovo di Roma.

“Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù”, avverte, se “pensa solo a se stessa e ai propri interessi” essa “si disorienta, perde il senso”, diventa “triste”. Al contrario, una Chiesa umile, disinteressata, beata, “è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente”. Dunque meglio una Chiesa “accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade”, che non una Chiesa “malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”. 

“Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”, ribadisce Bergoglio. Tuttavia le tentazioni da affrontare sono tante. Lui ne evidenzia “solo due” – “non saranno 15 come quelle che ho detto alla Curia”, dice scherzando – ovvero la tentazione “pelagiana” e dello “gnosticismo”. 

Il pelagianesimo “porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte” e “ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività”. “La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso”, rileva il Santo Padre. E aggiunge: “Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”.  La dottrina cristiana non è infatti “un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, inquieta, anima”. La riforma della Chiesa poi – aggiunge il Pontefice – “è aliena dal pelagianesimo”. Essa “non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture”. “La dottrina cristiana è Gesù Cristo”.  

Sulla stessa scia lo gnosticismo, spiega Bergoglio, “porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello”. Il suo “fascino” è quello di “una fede rinchiusa nel soggettivismo”, dove interessa unicamente “una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti”. Tutto ciò significa “costruire sulla sabbia”, significa “rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo”.

Il dinamismo, cioè, che la Chiesa italiana ha vissuto grazie a grandi santi come Francesco d’Assisi o Fillipo Neri. Ma anche attraverso la semplicità di personaggi inventati come Peppone e don Camillo. “Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente”, osserva Francesco. E ricorda le parole che don Camillo diceva di sé: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”.  Ecco, proprio questa vicinanza alla gente, unita alla preghiera, “sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto”, assicura il Papa; “se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte”.

Ai vescovi si chiede pertanto di essere “pastori”, “non di più… pastori. Sia questa la vostra gioia: Sono pastore’. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi”. Allo stesso tempo il Papa esorta ad essere predicatori non “di complesse dottrine”, ma dell’annuncio “essenziale” che è il kerygma. Pure – dice – preoccupatevi della “inclusione sociale dei poveri”, che hanno un posto “privilegiato” nel popolo di Dio. L’opzione per i poveri è “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana”, sottolinea il Pontefice.

Lo dimostra la millenaria storia di Firenze, città dove la bellezza “è stata messa a servizio della carità!”. Pensiamo, ad esempio, allo Spedale degli Innocenti, una delle prime architetture rinascimentali al mondo creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. “Spesso – sottolinea il Santo Padre – queste mamme lasciavano insieme ai neonati medaglie spezzate a metà, con le quali si sperava, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. La Chiesa madre ha l’altra metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati”. 

Ultima raccomandazione è quella al dialogo, che non significa “negoziare”, nel senso di “cercare di ricavare la propria ‘fetta’ della torta comune”. Dialogare – evidenzia il Vescovo di Roma – “è cercare il bene comune per tutti”, discutendo insieme e pensando “alle soluzioni migliori per tutti”. Anche a costo di scivolare in un “conflitto” che “è logico e prevedibile”. 

“Il modo migliore pe
r dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”, raccomanda il Papa, esortando la Chiesa a “dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico”. “Non dobbiamo aver paura del dialogo”, aggiunge, “anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia”.

“I credenti sono infatti cittadini” e “la nazione non è un museo”, bensì “un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”. L’appello è soprattutto rivolto ai giovani, a cui il Successore di Pietro chiede di essere “forti” e superare “l’apatia”. Siate “costruttori dell’Italia” – incoraggia -, mettetevi al lavoro “per una Italia migliore”, e “non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico”.  

Di qui un nuovo invito ad uscire per essere Chiesa “dal volto di mamma” che “comprende, accompagna, accarezza”. “Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”, insiste Francesco. E domanda di avviare nei prossimi anni – “in modo sinodale” – un approfondimento della Evangelii gaudium in ogni comunità, parrocchia, diocesi e Istituzione.

Poi conclude con un nuovo invito alla creatività: “Siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese”.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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