Si è aperto con una citazione di Opus Florentinum di Mario Luzi, il Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze, che si concluderà venerdì prossimo e che avrà il suo momento topico domattina, con l’intervento di papa Francesco.
Il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, ha ricordato che il componimento luziano fu scritto in occasione del Giubileo del millennio. “Sono le parole con cui, fratelli e sorelle delle Chiese d’Italia, vi accoglie la Chiesa di Firenze”, ha detto il cardinale rivolto ai delegati presenti al Convegno.
Il poeta immagina di dar voce alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, luogo dell’incontro inaugurale del convegno: “Grande mi concepirono i mercanti / e il popolo minuto. / Ebbero di me una visione grande / Arnolfo, Giotto, ser Filippo, / assistettero alla mia nascita, essi, / propiziarono la mia crescita, / un popolo di artefici si adoperò per me nei secoli, / l’Opificio è ancora aperto, / non sarò mai compiuta”.
“In queste parole – ha proseguito il porporato – si illumina la consapevolezza di mutua appartenenza tra Chiesa e città che trovate rappresentata nelle pareti di questa cattedrale e quella convinta apertura al dialogo tra ricerca dell’uomo e verità cristiana, che Papa Francesco traduce nella felice immagine di Chiesa “in uscita”.
Ai versi di Luzi si intrecciano quelli di Rainer Maria Rylke che, influenzato dalla spiritualità orientale, “dipinge la figura tormentata dell’uomo occidentale, colto nell’emergere della propria affermazione di sé”.
“Fu l’uomo, allora, che oltre ogni misura – / grande, gigantesco – / dimenticò che esiste l’impossibilità di misurare […] Dio solo resta oltre il suo volere: / ed egli l’ama con un intimo rancore / perché non può raggiungerlo”, scrive il poeta mitteleuropeo.
Sono versi, ha commentato Betori, da cui trapela l’“impresa disperata” che scaturisce dalla “linea interpretativa dell’umanesimo” prevalente in epoca moderna. Un “umanesimo ateo”, per dirla con Henri De Lubac, inteso come separazione da Dio non ha altro sbocco al di fuori del “dramma”, della “perdizione” e del “non-senso”. Una sorta di “alba incompiuta”, per usare ancora le parole di De Lubac.
L’umanesimo sorto a Firenze verso la fine del XIII secolo e durato fino alla fine del XVI, tuttavia, “ebbe le sue radici più proprie in una visione della vita e della storia, che nella fede cristiana riconosceva il vertice del cammino dei popoli e delle culture che l’avevano preceduta e in essa ripensava la classicità, per proiettarsi in progetti futuri”, ha ricordato l’arcivescovo.
È a questo umanesimo che attinse anche San Giovanni Paolo II, il quale, durante la sua visita a Firenze del 1986, “richiamò a promuovere la verità sull’uomo”.
Nell’affermazione di se stesso, “l’uomo può anche decadere in forme orrende di disumanizzazione”, come dimostra la storia degli ultimi due secoli.
Pertanto, “solo se l’umanesimo riveste i caratteri della carità può sfuggire a questo destino”, come dimostra la storia di Firenze, in cui “l’affermazione dell’umano, nelle sue espressioni migliori, ha saputo legare insieme il senso alto della cultura e dell’arte con la cura del debole e l’esercizio della misericordia”, ha sottolineato Betori.
Firenze offre dunque “una sintesi di ricerca sincera e intensa del vero, di espressione in superbe forme di bellezza, di passione generosa e multiforme di carità”.
In questa visione dell’umanesimo è riconoscibile “non una teoria astratta sull’uomo, ma un’esperienza dell’uomo fatta tessuto di condivisione di popolo”, ha aggiunto il porporato, richiamandosi alla Evangelii Gaudium (cfr. n°68).
La cattedrale di Santa Maria del Fiore si pone dunque come simbolica “casa della fede e della cittadinanza del popolo fiorentino”, frutto della “cultura di un popolo consapevole di quale fosse la radice che la faceva germinare e che alimentava l’umanesimo che andava costruendo per offrirlo come un dono all’intero mondo”.
Tanto è vero, ha osservato Betori, che, nell’edificare la cupola di Santa Maria del Fiore, Brunelleschi volle porvi in cima Gesù “l’immagine della meta verso cui siamo in cammino”, in cui vi riconosce “la pienezza dell’umano”.