Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la Domenica XXXII del Tempo Ordinario (Anno B) — 8 novembre 2015.
Come di consueto il presule offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44
Rito Ambrosiano
Is 49,1-7; Sal 21; Fil 2,5-11; Lc 23,36-43
Ultima Domenica dell’Anno Liturgico Ambrosiano
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo
1) Umiltà vera.
Nel Vangelo, che la Liturgia ci propone questa domenica, sono raccontate due scene di vita che accadono anche oggi e che ci invitano ad un esame di coscienza, su come deve essere il nostro modo di essere cristiani: umili e devoti. Infatti, anche a noi oggi Gesù dice quello che, nel Tempio di Gerusalemme, insegnò ai suoi discepoli: “‘Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa’. Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: ‘In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere’”. (Mc 12,38-44)
Il primo scopo della prima scena, nella quale il Cristo parla degli scribi è quello di denunciare alcuni modi sbagliati di agire, che possono essere di qualsiasi uomo religioso, in ogni epoca. Uomini simili si rivelano, anzitutto, nei loro atteggiamenti vanitosi, un difetto che potrebbe anche farci sorridere ma sempre, purtroppo, attuale.
Gli scribi si esibiscono con abiti ricercati, pretendono deferenza e venerazione. Ma la cosa più grave è che costoro hanno introdotto nella loro vita l’inganno (“divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere”). Un duplice inganno, quello di separare il culto di Dio dalla giustizia: si prega Dio e si danneggiano i poveri. E quello, ancor peggiore, che consiste nell’illudersi di amare Dio e il prossimo, e invece gli scribi non amano che se stessi. L’autorità morale di cui godono, la dottrina che possiedono, le pratiche religiose che compiono, tutto è utilizzato da loro a mettersi in luce, tutto è strumentalizzato a loro vantaggio. Persino i criteri della giustizia finiscono con l’identificarsi con il loro tornaconto.
Credo che sia importante notare che lo scopo del Redentore non è solo quello di invitare all’umiltà, denunciando la superbia e l’ipocrisia degli scribi. Dopo averli disapprovati quali falsi, ingannevoli maestri, con la seconda scena, che ha come protagonista una povera vedova, Gesù indica questa donna come esempio di maestra vera, che insegna a donare tutto. In questo modo con un esempio “piccolo” tutti potremo cogliere l’esempio grande di Cristo, che ha donato se stesso fino a morire per noi per darci la vita.
Questa scena si svolge nel cortile del tempio di Gerusalemme, a cui avevano accesso anche le donne. In questo cortile erano disposte tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Era un gesto fatto di fronte a un sacerdote del Tempio, che verificava l’autenticità delle monete e dichiarava a voce alta l’importo dell’offerta, per la folla che assisteva a questo “spettacolo”. Anche Gesù, Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, si trova seduto davanti a questi tredici piccoli forzieri, ma non loda – come fanno gli altri – le generose offerte, di cui il sacerdote aveva annunciato l’entità.
Il Figlio di Dio non guarda le apparenze, perché Dio guarda il cuore (cfr. 1 Sam16,7) e loda una vedova che offre poche monete. Questa vedova, povera donna senza più nessuno e che non è più di nessuno, ha una fede così grande in Dio che, anche se si tratta di spiccioli, che però costituiscono tutto quello che ha, li offre a Dio, perché è sicura di essere di Dio.
2) Devozione autentica.
Il gesto della donna non è spettacolare, ma un’autentica pratica di pietà che Gesù riconosce ed indica come gesto autentico, perché sicuro, retto, ordinato, devoto, umile, in una parola sola: totale. Questa vedova getta nel tesoro del Tempio tutto quello che ha e getta in Dio tutto quello che è. Quel tutto ciò che questa vedova ha ed è e che lei offre totalmente, ci richiama alla mente quella misura dell’amore di Cristo, che è dare la propria vita. L’amore vero è dare tutto, senza calcoli, senza tornaconti, senza misure, come in questo caso, come sempre fa il Signore con noi.
E procedendo a ritroso nel commento agli altri quattro aggettivi qualificativi del gesto autentico, aggiungo che è un gesto:
umile, perché è fatto senza pretese e perché Dio “si volge alla preghiera dell’umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18);
devoto, perché sgorga dalla carità, e cioè dall’amore di Dio e del prossimo, vissuta come dono di sé commosso;
ordinato, perché niente antepone a Dio e in Dio ama il prossimo;
retto, perché chiede il bene. La preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi” (San Giovanni di Damasco);
sicuro, perché compito da un cuore sicuro di essere ascoltato:: “Mi invocherà e gli darò risposta” (Sal 91,15).
Questo gesto di devozione autentica e totale è “usato” dal Magistero di Gesù come magistero per insegnare che il Suo modo di misurare il mondo non è con il criterio della quantità, ma con quello del cuore. Agli occhi di Colui, che guarda il cuore, la quantità non è che apparenza. Ciò che conta non è quanto denaro si dona, ma quanto amore vi è stato messo, quanta vita contiene il dono che si sta facendo. Come dice San Giovanni della Croce: “Al tramonto della vita, saremo giudicati sull’amore”, e l’episodio di oggi come la descrizione del giudizio finale: “Avevo fame, sete, ecc, e mi avete dato da mangiare, da bere, ecc.” ci ricordano che il Vangelo può essere vissuto grazie a un pezzo di pane o in un bicchiere d’acqua fresca, dati solo per amore, grazie a due monetine, date con tutto il cuore.
L’importante è dare con tutto il cuore. Che sia dia tutto come la vedova del Vangelo di oggi, o la metà dei propri beni come fece Zaccheo, a Gesù non importa molto, perché Lui non misura. Lui chiede di essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto il nostro essere. E’ per questo che lui loda la vedova e dice a Zaccheo, che ha dato la metà dei suoi beni: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (cfr. Lc 19, 9).
La carità non va a peso o a tempo. Il dono, che ha “peso” per Cristo, è quello che facciamo donandoci a Lui, “con abbandono totale e amorosa fiducia” (cfr. M. Teresa di Calcutta) Si può dare anche la vita, come dice San Paolo, ma se non si ha la carità in cuore e se si è generosi per sentirsi lodati, per sentirsi bravi … lasciamo perdere. Possiamo dare ricche offerte alla Chiesa e ai poveri, ma se il nostro cuore non è in Dio, quei beni non sono altro che polvere. Gesù ci chiede di dare molto di quello che abbiamo, ma tutto di quello che possiamo, con gioia.
Credo, infine, che sia giusto e doveroso sottolineare che la vedova indicata da Gesù nel Vangelo di oggi assomiglia ed è immagine della Chiesa-Sposa che tutta si dona allo Sposo
che è Cristo, il Figlio di Dio, che per lei si è fatto povero.
Le vergini consacrate nel mondo devono dunque ispirarsi all’esempio di questa donna per vivere la loro vocazione sponsale. Anche loro come questa donna sono chiamate a testimoniare che ormai nessun’altra presenza può trovare posto in loro e che come questa donna mettono tutto a disposizione di Dio e del suo Regno. La loro vita diventa così risposta concretissima a Cristo che dice loro: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo” (Ct 4,9) e sempre con la loro vita chiedono come la sposa del Cantico dei cantici al suo Diletto: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!” (Ct 8,6). Infatti: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me” (Ct 6,3). La verginità, che rivela l’integrità, la santità e la verità di una persona, permette di vivere per il Signore, di testimoniare che il cuore umano è fatto da Dio e per Dio, di servire Dio con cuore indiviso in una dedizione totale, partendo dal dono di due monetine.
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LETTURA PATRISTICA
Gregorio Magno,
Hom. in Ev., 5, 1-3
Il Regno di Dio vale tutto ciò che uno possiede
Avete udito, fratelli carissimi, che Pietro e Andrea non appena furono chiamati, al primo suono del comando, lasciarono le reti e seguirono il Redentore. Non l’avevano ancora visto operare alcun prodigio; ancora non l’avevano ascoltato in tema di premio eterno; e nondimeno, al primo cenno del Signore, dimenticarono tutto quello che poteva costituire il loro possesso…
Mi sembra, peraltro, di sentire qualcuno che dice tra sé: Pietro e Andrea erano pescatori, non possedevano nulla o quasi. Cosa mai lasciarono al comando del Signore? Ma, in questo caso, fratelli carissimi, dobbiamo guardare più all’affetto che al valore del censo. Certamente, molto lascia chi non trattiene nulla per sé; molto lascia chi abbandona completamente tutto quel che possiede. Noi, invece, siamo aggrappati gelosamente a quanto possediamo e desideriamo avidamente quel che non abbiamo. Pietro e Andrea lasciarono davvero molto, dal momento che rinunciarono persino al desiderio di possedere. Sì, questi apostoli lasciarono molto, rinunciando non solo alle cose ma altresì al desiderio di esse. Tanto lasciarono, ponendosi al seguito di Cristo, quanto avrebbero potuto desiderare, se non avessero intrapreso la sua sequela.
Nessuno dica, quindi, allorché vede che altri han lasciato tutto: imiterei volentieri questi spregiatori del mondo, però non ho nulla da lasciare. Infatti, fratelli, anche voi rinunciate a molto, se rinunciate ai desideri terreni. Lasciando il poco che possedete, è quanto basta per far contento il Signore: egli guarda il vostro cuore, non il vostro patrimonio. Non guarda quanto gli offriamo in sacrificio, bensì l’amore con cui glielo offriamo. Se guardiamo al patrimonio terreno, dobbiamo dire che quei due santi mercanti acquistarono la vita eterna degli angeli, in cambio delle reti e della barca.
Il Regno di Dio, invero, non ha prezzo; però esso vale tutto ciò che uno possiede. Nel caso di Zaccheo, esso valse la metà dei suoi beni, perché l’altra metà egli se la riservò per restituire il quadruplo a coloro che aveva defraudato (Lc 19,8); nel caso di Pietro e Andrea, valse le reti e la barca (Mt 4,20); per la vedova, valse solo due spiccioli (Lc 21,2 Mc 12,42); per un altro, sarà valso magari un semplice bicchiere d’acqua fresca (Mt 10,42). Quindi, il Regno di Dio, come ho già detto, vale tutto quello che uno possiede.
Riflettete, dunque, fratelli, sul valore del regno dei cieli: niente vi è di meno costoso nell’acquisto e niente di più prezioso nel possesso. Supponiamo però di non avere neppure un bicchiere d’acqua fresca da dare al povero; ebbene, anche in questo caso ci soccorre la parola divina. Alla nascita del Redentore, si mostrarono i cittadini del cielo, cantando: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buon volere” (Lc 2,14). Davanti a Dio, la nostra mano non è sprovvista di doni, se l’arca del cuore è piena di buona volontà. Ecco perché il Salmista dice: “In me sono, o Dio, i voti che ti rendo, a te si levano le mie lodi” (Ps 55,12). È come se dicesse: «Anche se non trovo fuori di me doni da offrire, nondimeno trovo nel mio intimo qualcosa da porre sull’altare della tua lode, poiché tu non ti pasci del nostro dono, ma ti lasci placare dall’offerta del cuore.