Jesus wearing the Crown of Thornes

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I documenti non cristiani sulla storicità di Gesù (Prima parte)

Il punto attuale della ricerca sul tema dell’esistenza storica di Gesù di Nazareth

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Per un lungo periodo di tempo  la storicità di Cristo è stata oggetto di un ampio dibattito. Sul piano ufficiale, il tema del confronto ha sempre avuto al centro Gesù di Nazareth. Però, dietro a molti rilievi  inerenti la sua reale presenza nella Palestina del I°  sec., sono emerse anche delle spinte legate a dottrine di pensiero diverse, influsso di correnti gnostiche, posizioni  di religioni non cristiane, orientamenti politici avversi all’autorità ecclesiastica cattolica (nelle sue diverse espressioni), risentimenti legati a conflitti di potere, personalismi sottesi a dure polemiche. Sono poi  da aggiungere le molte distruzioni del patrimonio cristiano (edifici di culto, monasteri, biblioteche, opere iconografiche) in diversi Paesi, già dal I° secolo.

Questo contesto storico, qui solo accennato, non ha facilitato la comprensione delle reciproche ragioni, e non ha permesso di effettuare ricerche in zone di elevato interesse archeologico, e in determinati luoghi di conservazione di reperti di notevole valore storico. Con il mutare di molti contesti internazionali, e con lo sviluppo di  indagini moderne impostate con metodo interdisciplinare (con valorizzazione della stessa archeologia), è stato possibile recuperare molto tempo perduto, e far conoscere alla comunità internazionale i risultati di faticose ricerche. Il presente studio, senza alcuna presunzione di esaustività, rivolge una particolare attenzione ad alcune fonti non cristiane e ai contributi offerti da specialisti anche non cattolici.

La cronaca di Giuseppe Flavio

Giuseppe Flavio (37ca-100ca) fu uno scrittore e storico di origine ebraica. Delegato del sinedrio e governatore della Galilea, divenne consigliere dell’imperatore Vespasiano (Tito Flavio; 9-79 d.C.) e di suo figlio Tito (Flavio Vespasiano; 39-81). Nelle sue Antichità giudaiche, cita anche Gesù e i cristiani. In un passo descrive la lapidazione dell’apostolo Giacomo, che era a capo della comunità cristiana di Gerusalemme, avvenuta nel 62, e presentata come un atto sconsiderato del sommo sacerdote nei confronti di un uomo virtuoso:

“Anano (…) convocò il sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione”.[1]

Questa descrizione è in sintonìa con quella riportata dall’apostolo Paolo  nella lettera ai Galati (1,19), dove egli fa riferimento a “Giacomo, il fratello del Signore”. In un altro passo, lo storico indica la figura  di Giovanni il Battista.

C’è, poi,  un capitolo della stessa opera, conosciuto come Testimonium Flavianum. Nel 1971, il professor Shlomo Pinés (1908-1990)[2], dell’università ebraica di Gerusalemme, pubblicò la traduzione di una diversa versione del Testimonium, come citato in un manoscritto arabo del X secolo. Il brano compare ne Il libro del Titolo dello storico arabo-cristiano Agapio (morto nel 941). Questo A. fu anche vescovo melchita di Hierapolis (in Frigia, Asia Minore). Agapio riporta solo in modo approssimativo il titolo dell’opera di Giuseppe, ed afferma che il suo lavoro è basato su una cronaca più antica, scritta in  siriaco da Teofilo di Edessa (morto nel 785), andata persa. È un testo migliore di quello greco tramandato fino a quel momento, perché non si individuano possibili interpolazioni. Si riporta qui di seguito il passo.

“Similmente dice Giuseppe l’ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato virtuoso, e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono alla sua dottrina e raccontarono che egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie”.[3]

La testimonianza di Tacito

Cornelio Tacito (56/57ca-120ca) proveniva da una famiglia equestre. Fu questore, pretore, console e proconsole d’Asia. Gli studiosi lo considerano uno storico scrupoloso. Plinio il Giovane ne loda la diligenza. Per la sua posizione politica, aveva accesso agli Acta Senatus (i verbali delle sedute del Senato romano), e agli Acta diurna populi romani (gli atti governativi e le notizie su quanto accadeva ogni giorno). Riportando la decisione dell’imperatore Lucio Domizio Enobarbo Nerone (37-68) di riversare sui cristiani la colpa dell’incendio che distrusse Roma per una settimana, nel 64 d.C., Tacito annota:

“Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Christus, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato all’estrema condanna dal procuratore Ponzio Pilato”.[4]

L’A.  evidenzia il fatto che il titolo di cristiani deriva da una persona realmente esistita, chiamata Christus, il nome latino per Cristo. Di lui si afferma che ha subìto “l’estrema condanna”, alludendo al “iudicium in cruce” in uso anche presso i romani. Questi avvenimenti sono avvenuti “durante il regno di Tiberio”, e per decisione di Ponzio Pilato. Sono tutte conferme di quanto raccontano gli evangelisti sulle circostanze della morte di Gesù.

Tacito riporta anche le seguenti notizie sulla persecuzione contro i cristiani:

“Alla pena vi aggiunse lo scherno: alcuni coperti con pelli di belve furono lasciati sbranare dai cani, altri furono crocifissi, ad altri fu appiccato il fuoco in modo da servire d’illuminazione notturna, una volta che era terminato il giorno. Nerone aveva offerto i suoi giardini per lo spettacolo e dava giochi nel Circo, ove egli con la divisa di auriga si mescolava alla plebe oppure partecipava alle corse con il suo carro… (I cristiani) erano annientati non per un bene pubblico, ma per soddisfare la crudeltà di un individuo”.

La lettera di Plinio il Giovane a Traiano

Plinio il Giovane (61/62-113ca) era stato allievo del retore Marco Fabio Quintiliano (35/40-96). Tra il 111 e il 113 fu governatore romano della provincia della Bitinia e del Ponto (Asia Minore). Si conserva una raccolta di sue Epistole in dieci libri. Il decimo libro contiene il carteggio che intercorse tra lui e l’imperatore Marco Ulpio Nerva Traiano (53-117). Le missive risalgono in gran parte al periodo del governatorato in Bitinia. In particolare, in uno scritto, egli chiede  direttive al monarca su come condurre le procedure legali contro le persone accusate di essere cristiane.  Ha necessità di consultare l’imperatore perché un gran numero di persone, di ogni età, sesso e ceto sociale, erano state accusate di professare la religione cristiana. Il procedimento che usa Plinio è il seguente: interroga i presunti cristiani. Se essi risultano tali, e non ritrattano entro il terzo interrogatorio,  li condanna a morte. Per coloro che negano di essere cristiani, o che dicono di esserlo stato in passato, anche vent’anni prima, egli pretende la dimostrazione di quanto affermano, inducendoli a sacrificare agli dei, a venerare l’effigie dell’imperatore, e a imprecare contro Gesù Cristo.

A un certo punto della lettera, Plinio riporta dei dati sui cristiani:

“Essi avevano l’abitudine di incontrarsi in un certo giorno prestabilito prima che facesse giorno, e quindi cantavano in versi alternati a Cristo, come a un dio, e pronunciavano il voto solenne di non compiere alcun delitto, né frode, furto o adulterio
, né di mancare alla parola data, né di rifiutare la restituzione di un deposito; dopo ciò, era loro uso sciogliere l’assemblea e riunirsi poi nuovamente per partecipare al pasto, un cibo di tipo ordinario e innocuo”.[5]

Questo passaggio informa quindi che i primi cristiani si incontravano regolarmente in un certo giorno per adorare Cristo. Ciò dimostra che credevano fermamente nella sua divinità. La frase che sottolinea come i cristiani cantassero inni a Cristo “come a un dio”, viene interpretata come riferimento al fatto  singolare che, “a differenza degli dèi adorati dai romani, Cristo era una persona che era vissuta sulla terra”.[6] Se questa lettura è corretta, allora Plinio comprendeva che i cristiani stavano adorando una persona realmente esistita, la quale – però – aveva anche una natura divina.  Tale conclusione è in sintonìa con l’affermazione di Giovanni: “Et Verbum caro factum est”.[7]

La lettera di Plinio rivela pure la particolare considerazione riservata dai primi cristiani alle parole di Gesù. Essi “pronunciavano il voto solenne” di non violare regole morali.  Ciò trova origine negli insegnamenti di Cristo. Inoltre, il riferimento di Plinio all’uso cristiano di consumare dei pasti in comune, si collega alla loro osservanza di prescrizioni quali la comunione e lo “spezzare del pane” di cui fa riferimento il Nuovo Testamento. Il governatore romano sottolinea anche che il loro era “un cibo di tipo ordinario e innocuo”, rigetta quindi le false accuse di “cannibalismo rituale” sollevate da alcuni pagani, insieme con altre simili dicerie, e non ritiene i cristiani membri pericolosi di gruppi sovversivi.

Le annotazioni di Svetonio

Gaio Svetonio Tranquillo (75ca-140ca) fu un archivista. Segretario e bibliotecario dell’imperatore Adriano (cit.). Nelle Epistole si trova un riferimento a Gesù e ai suoi seguaci. Inoltre, nell’opera Vita dei dodici Cesari, egli include due dati che interessano in modo particolare. Il primo si trova nella vita di Claudio. Questo è il testo:

“Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit” (Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine).[8]

Non stupisce il fatto che Svetonio scriva Chrestus invece di Christus. Basti notare che le parole greche chrēstós (buono, eccellente) e christós (unto con olio, lucente) erano pronunciate allo stesso modo, e potevano essere facilmente confuse, specie da chi non fosse ben informato sui fatti. A riprova di ciò, si osserva che Svetonio fa riferimento ai giudei in modo generico. L’A. non riesce a comprendere, come avveniva anche per gli altri suoi contemporanei, le differenze esistenti tra la comunità ebraica e quella più recente formata dai cristiani. Svetonio si limita a ricordare quello che per lui è solo un provvedimento imperiale mirato a risolvere delle tensioni. In realtà, il contesto è più articolato. La predicazione del Cristo tra i giudei romani da parte di altri giudei, non poteva che generare delle forti reazioni. Se ne ha un’ulteriore conferma negli Atti degli Apostoli.[9] In tale contesto, la cronaca di Svetonio (cit.) concorda con quanto è riferito negli Atti riguardo all’arrivo di Paolo a Corinto:

“Dopo di ciò, partito da Atene (Paolo) andò a Corinto. E trovato un giudeo di nome Aquila, pontico di nascita, da poco giunto dall’Italia, e la moglie sua Priscilla, per il fatto che Claudio aveva ordinato che tutti i giudei partissero da Roma, andò da loro “.[10]

Il secondo riferimento ai cristiani, Svetonio lo colloca nella vita di Nerone. Viene riassunto quanto già riportato da Tacito, e sono ripetute le accuse di superstizione:

“Afflicti supliciis christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae” (Sottopose a supplizi i cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica”).[11]

Lo scritto di Luciano di Samosata

Il siriano Luciano di Samosata (120ca-180/192ca), un rètore scettico, attivo nell’età degli imperatori Antonini, fu autore di un’opera dal titolo La morte di Peregrino. Vi si legge tra l’altro:

“I cristiani (…) tutt’oggi adorano un uomo, l’insigne personaggio che introdusse i loro nuovi riti, e che per questo fu crocifisso. (…) Ad essi fu insegnato dal loro originale maestro che sono tutti fratelli, dal momento della loro conversione, e negano gli dèi della Grecia, e adorano il saggio crocifisso, vivendo secondo le sue leggi”.[12]

Pur beffandosi dei primi cristiani per la loro scelta di seguire  “il saggio crocifisso” anziché gli dèi della Grecia”, Luciano riporta alcuni dati interessanti. Scrive che i cristiani servivano “un uomo” che “introdusse i loro nuovi riti”. E, sebbene i seguaci di questo “uomo” avevano chiaramente un alto concetto di lui, molti dei suoi contemporanei lo odiavano per gli insegnamenti, al punto che “per questo fu crocifisso”. Pur non citando il nome, è chiaro che Luciano si riferisce a Gesù.

Ma, cosa aveva fatto Cristo per farsi odiare fino a questo punto? Secondo il retore romano, aveva insegnato che tutti gli uomini sono fratelli dal momento della loro conversione. E fin qui nulla quaestio. Ma, che s’intendeva con “conversione”? Significava abbandonare gli dèi della Grecia, adorare Gesù, e vivere secondo i suoi insegnamenti. Non è difficile immaginare in quell’epoca l’eliminazione di chi insegnava queste cose. Inoltre, anche se Luciano non lo scrive in modo esplicito, il fatto che i cristiani rinnegassero gli altri dèi e adorassero Gesù, e facessero questo pur consapevoli delle possibili persecuzioni, implica che Cristo era per loro – senza dubbio – più che un essere umano. Era un Dio superiore a tutti gli dèi dell’antica Grecia.

La critica di Marco Aurelio

Marco Aurelio (121-180 d.C.) fu imperatore dal 161 al 180 d.C.. Verso il 170 scrisse alcuni pensieri e meditazioni filosofiche in un’opera in greco intitolata A se stesso. Nel testo si trova questo passaggio: “Quale spettacolo è l’anima che si mostra pronta, quando deve ormai staccarsi dal corpo ed estinguersi o disperdersi o persistere! Ma questa prontezza deve venire da un proprio giudizio individuale e non basarsi su una pura e semplice opposizione come avviene tra i cristiani: deve risultare meditata, seria, in grado di persuadere anche gli altri, lontana da ogni teatralità”.[13] Nel suo scritto, l’imperatore critica i seguaci di Gesù perché sono capaci di farsi uccidere pur di sostenere i propri ideali. Per Marco Aurelio sono, evidentemente, dei fanatici.[14]

Note

[1] G. Flavio, Antichità giudaiche, XX, 200.

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Shlomo_Pines

[3] G. Flavio, Antichità giudaiche, XVIII, 63-64.

[4] Tacito, Annali, XV, 44. Pilato univa nella sua persona l’incarico politico (prefetto) e quello amministrativo (procuratore).

[5] Id., op. cit., Epistole, , vol. II, X, 96.

[6]  M. Harris, References to Jesus in
early classical authors
.

[7] Gv 1,14.

[8] Svetonio, Vita Claudii, XXIII, 4.

[9]  At 13,44ss..

[10]  At 18, 1-2.

[11]  Svetonio, Vita Neronis, XVI, 2.

[12]  Luciano di Samosata. De morte Peregrini, XI-XIII, trad. H. Watson Fowler.

[13] Marco Aurelio, A se stesso, XI, 3.

[14] Anche negli anni di Marco Aurelio si registrarono persecuzioni. Tra i martiri, san Giustino e discepoli 

La seconda parte dello studio verrà pubblicata domani, domenica 8 novembre 2015.

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ZENIT Staff

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