Il motu proprio sulla riforma dei processi di nullità matrimoniale rappresenta in realtà un rinverdimento della tradizione di Santa Romana Chiesa. Agli albori del cristianesimo era infatti prassi l’affidamento della responsabilità e della “potestà” al vescovo. Lo sottolinea monsignor Angelo Becciu, Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, in un editoriale pubblicato sull’Osservatore Romano di oggi.
“L’invito del Papa – scrive Becciu – ha fondamento costante in tutta la grande traditio ecclesiae. In effetti il potere-dovere di giudicare affonda le sue radici nella pratica cristiana antica per cui le dispute tra singoli venivano risolte all’interno della comunità al fine di evitare lo scandalo di liti di fronte a giudici secolari”.
Nella tarda antichità, infatti, i vescovi assunsero sempre più responsabilità nel dirimere dispute “anche in ambito civile”, al punto che nel 318, l’imperatore Costantino emise due costituzioni garantendo statuto legale al tribunale episcopale.
Con il risultato che furono emessi alcuni editti imperiali per “ridurre il quasi inarrestabile flusso di contendenti davanti ai tribunali episcopali, visto che questi garantivano giudizi rapidi e non costosi e un vasto numero di persone li preferiva a un sistema giudiziario secolare lento, caro e corrotto”.
Anche Sant’Agostino e Sant’Ambrogio, nella funzione di vescovi, furono investiti di questo ruolo e, in particolare Agostino dovette discettare su questioni come “proprietà di beni, contratti, eredità, ma anche accuse di adulterio”, con il “potere di pronunciare sentenze compresa l’imposizione di multe e, nel caso dei cristiani, la scomunica”.
Durante tutto il Medioevo la “potestas iudicialis” del vescovo rimase vigente, sia pure talora delegata nelle mani del decano, dell’arcidiacono o di altri chierici inferiori.
Anche il Concilio di Trento specificò che le “cause matrimoniali e criminali” erano di competenza del vescovo.
“Queste disposizioni – prosegue Becciu – sfociano nel Codex iuris canonici del 1917 che, a sua volta, confermò l’antichissima disciplina della Chiesa sul potere giudiziario dei vescovi i quali, nelle loro diocesi, sono i giudici naturali di qualsiasi causa sorta nel loro territorio, salva l’autorità del Sommo Pontefice anche in questo campo per tutta la Chiesa”.
“La dottrina, dunque – scrive il presule – non ha mai negato la potestas iudicialis episcopalis e, nel solco di questa antica traditio Ecclesiae, l’intero magistero dei successori di Pietro lo ha più volte ribadito, soprattutto in occasione delle allocuzioni alla Rota Romana”.
Pio XII, nel suo discorso alla Sacra Rota Romana del 1947, ricordò: “Giudici nella Chiesa sono in virtù del loro ufficio e per volere divino i vescovi, dei quali dice l’Apostolo che “sono stati costituiti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio”.
Da parte sua, al termine del Concilio Vaticano II, il beato Paolo VI riconfermò “la funzione giudiziaria dei vescovi, fondata in tutta la tradizione ecclesiastica e soprattutto nell’ecclesiologia conciliare”.
San Giovanni Paolo II, infine, poco prima di morire, definì i vescovi “per diritto divino delle loro comunità”, pertanto il loro operato nei tribunali non poteva essere degradato a questione meramente “tecnica” da affidare “interamente ai loro giudici vicari”.
In questo quadro di continuità dottrinale e pastorale, si inserisce il magistero di papa Francesco, fautore di una “riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale”.
È proprio in questa ottica che il motu proprio Mitis ludex ordina “che il vescovo stesso nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati”. [L.M.]