“Una guerra nella quale si viveva giorno per giorno ammazzandosi senza odio”. Con queste parole lo scrittore e uomo politico Emilio Lussu (1890-1975) definì la “Grande Guerra”, ossia il conflitto armato che coinvolse le principali potenze mondiali tra l’estate del 1914 e la fine del 1918.
Sono parole paradossali, eppure profondamente vere. Parole anticipatrici del controverso giudizio storico che, al di là d’ogni retorica, viene oggi da più parti formulato sulla prima guerra mondiale. Un massacro inutile, voluto dalle élite al potere, che ebbe come vittime sacrificali milioni di persone. Per riferirsi alla sola popolazione italiana, furono circa 700mila i soldati che persero la vita ed oltre un milione quelli mutilati e feriti. Senza considerare coloro che la guerra la soffersero senza averla direttamente combattuta: i vecchi, le donne, i bambini.
La maggior parte dei soldati italiani, per lo più contadini, non potevano “odiare” il loro nemico semplicemente perché non lo conoscevano. E avevano ben poca (o forse nessuna) cognizione delle contrapposizioni che portarono allo scoppio della guerra, che ebbe come “casus belli” l’attentato di matrice anarchica contro l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria.
L’affermazione suddetta è confermata da un libro di cui ZENIT diede ampia notizia circa un anno fa. Il libro si intitolava La tregua di Natale – Lettere dal fronte (Edizioni Lindau) e proponeva, attraverso un’accurata raccolta di testimonianze, un episodio che potremmo definire commovente ed emblematico a un tempo. L’episodio risale al 1914, agli inizi della guerra. Papa Benedetto XV si era appellato ai belligeranti affinché le armi tacessero almeno durante il Natale. L’appello fu respinto dai capi militari ma venne accolto dalle truppe che, in alcune zone del fronte, deposero le armi attuando una spontanea “tregua natalizia”. I documenti dell’epoca rivelano che quei soldati, fino a poco prima pronti ad uccidersi, si scambiarono gli auguri di Natale, cantarono insieme e fraternizzarono tra loro.
Il regista Vittorio Curzel che, nel 2011, girò il film intitolato Fino a quando…, che parla del trauma sociale generato da quel drammatico conflitto, riferisce un episodio analogo. “Mi è stato detto – racconta – che vicino a Rovereto, nei pressi del Sacrario di Castel Dante, che custodisce i resti di dodicimila soldati italiani e austro-ungarici, c’era una fontana da cui a turno si rifornivano d’acqua i soldati dei due eserciti, con il patto implicito che nessuno avrebbe sparato”.
La guerra sul fronte italiano durò quarantuno mesi: più di tre anni di fame, freddo e malattie sotto il fuoco delle artiglierie nemiche, che videro in prima linea ragazzi provenienti dalle più diverse aree del Paese. Finalmente, il 4 novembre del 1918, fu firmato l’armistizio di Villa Giusti che sancì la vittoria dell’Italia dopo la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto (o terza battaglia del Piave).
Oggi, 4 novembre, è festa nazionale: una ricorrenza che potrebbe apparire scontata. Ma non è così. Più che la celebrazione di una vittoria bellica, dev’essere interpretata come un “monumento alla memoria”. Per ricordare ai giovani l’assurdità della guerra, facendo risuonare più forte nelle loro coscienze il “grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra!” (Papa Francesco, Angelus Piazza San Pietro, domenica 1 settembre 2013).
Per ricordare quel lontano 4 novembre pubblichiamo una testimonianza inviataci da una nostra affezionata lettrice: Maria Gaspari, nata nel 1940, insegnante in pensione, poetessa e narratrice. Si tratta di una pagina del diario di guerra di suo padre “che partì a 17 anni perché era della classe dei ragazzi del ‘99. Non sono lettere che scriveva a casa (scriveva anche quelle) – spiega la signora Gaspari – ma io non le ho viste. Scrisse quattro quaderni di diario, al fronte, usando le penna col pennino e una boccetta d’inchiostro chiusa in un involucro di legno. Li ricopiò quando fu tornato…”.
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L’aria del Piave si sentiva vicina. Da un momento all’altro sarebbe toccato a noi. I ponti provvisori erano carichi di militari che sfilavano, ma ogni tanto arrivavano cannonate di grosso calibro che sfondavano i ponti e i poveri militari giù nell’acqua. Sembravano come tante foglie che d’autunno cadono e si lasciano trasportare dalle onde. Ecco perché, chi ha visto o vissuto queste scene del Piave, sente un’eco di mestizia, quando ascolta il suono della marcia sul Piave: se ha un cuore, amore di famiglia e di patria, sente i brividi nel sangue. Ora tocca a noi la traversata. Fortunatamente non piove, ma è molto buio. Forse è meglio, così non si vede niente. Speriamo anche di non sentire, ma avrebbero sentito anche i sordi. Si fiuta chiaramente aria di linea, di trincea e si odono anche i rumori delle artiglierie. Siamo certamente sul Piave: ecco il ponte. Proseguiamo in silenzio, lasciando qualche intervallo tra noi per non dare troppo peso al ponte, come ci avevano insegnato. Ora non è solo impressione; abbiamo l’acqua sotto i piedi. E se giunge una cannonata? Raggiungeremo i nostri fratelli. Iddio ci guardi! Ecco che il ponte sembra finito. Si cammina sulla ghiaia. Possibile? Così presto? Continuiamo a camminare e sentiamo di nuovo le tavole di legno sotto i piedi. Saremo di nuovo sul ponte? E arriva l’ordine di fermarsi. I piedi sono di nuovo nell’acqua. C’è un canale da scavalcare. Si deve sfilare uno per uno e, al momento giusto, saltare.
Insomma tra ponte, acqua e sabbia arriviamo alla fine dall’altra parte. Sarà Meglio? Sarà peggio?
Si capisce che qui c’è stata guerra e si è combattuto molto. Ogni tanto qualcuno cade e si trova in una buca fatta da una granata. Ci si trova nell’acqua senza accorgersi perché c’è buio. Siamo stanchi, affamati e il fardello pesa. Ma, come dice la canzone: “tacere bisognava e andare avanti”.
Quando comincia a rischiarare vediamo i disastri della guerra: paesi completamente distrutti, tedeschi morti ai lati della strada, ma ci sono anche italiani. Al primo paese al di là del Piave c’era un campanile ancora in piedi, l’unica cosa che si fosse salvata, come capita talvolta con un bel grappolo d’uva, che, dopo una grandinata, resta là appeso, con un chicco solo.
Ricordo che trovammo lungo la strada un pianoforte un po’ sconquassato con il coperchio sollevato e, ognuno di noi fece una suonatina sui tasti.
C’erano alcune case non del tutto distrutte dove erano rimasti alcuni borghesi. Si affacciavano sulle porte e alle finestre, con volti raggianti, gridando: “Siete voi italiani! Bravi italiani, viva gli italiani, viva l’Italia!”. Ci invitavano anche a fermarci, a entrare, ma certo non fu possibile. Mentre continuiamo a camminare giunge un portaordini, parla con gli ufficiali: i tedeschi si ritirano al galoppo. La voce si sparge in un attimo e nessuno desidera dormire malgrado il sonno fosse molto. Si parla di armistizio, di pace, la guerra finisce, andiamo tutti a casa! La mattina del 4 Novembre 1918, la notizia è che in quella notte, nella Villa Giardino Giusti di Padova, è stato veramente firmato l’armistizio.