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Per ospitare il nuovo umanesimo

Il contributo della Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli al convegno ecclesiale nazionale della CEI

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Evangelizzazione e Ospitalità, accompagnamento spirituale e cultura contemporanea, scienza e fede… sono molte le declinazioni nell’ambito della salute  del tema del convegno ecclesiale nazionale – In Gesù Cristo un Nuovo Umanesimo. Sulla base della propria esperienza a fianco dei malati e fedele al Magistero del Papa e dei Vescovi, la Provincia Lombardo Veneta dell’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio ha elaborato il seguente documento di riflessione Per Ospitare un Nuovo Umanesimo.

***

«Tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2,4). Il mandato della prima lettera a Timoteo, che ha ispirato il Sinodo sulla famiglia e risuona nell’Anno straordinario della Misericordia, può apparire velleitario persino per un Ordine Ospedaliero, ma solo perché siamo uomini e donne del XXI secolo e sovente leggiamo anche la Parola con le lenti del nostro tempo. Per accogliere con fiducia questo mandato, è sufficiente tornare alle parole che San Giovanni di Dio rivolgeva ogni sera agli infermi dell’ospedale di Granada: «Voglio condurvi un medico spirituale che vi curi le anime, e per il corpo poi non mancherà il rimedio». Giovanni Ciudad aveva sperimentato questa verità nella propria vita e nella propria sofferenza e sapeva di annunciarla nella Spagna del Cinquecento, dove povertà e malattia rappresentavano una condanna inappellabile, nonché in una città multietnica, dove la fede era anche linguaggio, cultura e potere e i modi di percepirla e di viverla erano, anche allora, molto variabili.

In questi cinquecento anni, per offrire una testimonianza concreta e profetica a favore della vita umana e della dignità della persona, quale quella che portò Giovanni Ciudad a fondare i Fatebenefratelli e alla quale l’Ordine è rimasto fedele, non sarebbe stato sufficiente disporre di strutture all’avanguardia e delle conoscenze scientifiche più avanzate – San Giovanni di Dio, infatti, fu il fondatore dell’ospedale moderno – se nella vicinanza evangelica al malato non fosse stata quotidianamente sperimentata la certezza che l’annuncio della Parola dà realmente senso alla vita del credente e lo salva. La medesima certezza che risuona nel Vangelo di Giovanni – «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5) – e che impronta il messaggio di papa Francesco per la XXIV Giornata Mondiale del Malato. Il Santo Padre ci accompagna lungo il sentiero della sofferenza con lo stesso realismo di Giovanni Ciudad, che esortava i suoi contemporanei a fare del bene perché, facendolo, salvavano se stessi.

Il Papa sottolinea infatti che «la malattia, soprattutto quella grave, mette sempre in crisi l’esistenza umana e porta con sé interrogativi che scavano in profondità», inducendo non raramente lo sconforto, la ribellione, la disperazione, la perdita di senso, e afferma che, «in queste situazioni, la fede in Dio è, da una parte, messa alla prova, ma nello stesso tempo rivela tutta la sua potenzialità positiva.

Non perché la fede faccia sparire la malattia, il dolore, o le domande che ne derivano; ma perché offre una chiave con cui possiamo scoprire il senso più profondo di ciò che stiamo vivendo; una chiave che ci aiuta a vedere come la malattia può essere la via per arrivare ad una più stretta vicinanza con Gesù, che cammina al nostro fianco, caricato della Croce. E questa chiave ce la consegna la Madre, Maria, esperta di questa via», attraverso l’affidarsi al Figlio durante le nozze di Cana.

Oggi l’inculturazione del messaggio cristiano – e il recente Sinodo sulla famiglia ha ribadito nelle sue conclusioni che «l’inculturazione non indebolisce i valori veri, ma dimostra la loro vera forza e la loro autenticità, poiché essi si adattano senza mutarsi, anzi essi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture» – non si realizza più soltanto in senso geografico, ma prima di tutto culturale, così come le terre di missione possono trovarsi a pochi metri da casa nostra, nelle periferie esistenziali della società contemporanea, ma anche nelle periferie culturali, dove l’evangelizzazione deve superare la distanza logica e linguistica che separa il comune sentire dal messaggio cristiano.

Come fare? Quando papa Francesco, chiedendo a Gesù misericordioso, attraverso l’intercessione di Maria, di concederci la disposizione al servizio dei bisognosi e dei malati, osserva che «talvolta questo servizio può risultare faticoso, pesante, ma siamo certi che il Signore non mancherà di trasformare il nostro sforzo umano in qualcosa di divino», rileva l’obiettiva difficoltà di evangelizzare il momento della sofferenza umana in una società che la assimila al male e disperde il senso dell’esperienza umana e spirituale che anche questo momento della vita porta dentro di sé e che la pastorale della salute coltiva, indaga ed esalta.

Il Papa ci insegna che «anche noi possiamo essere mani, braccia, cuori che aiutano Dio a compiere i suoi prodigi, spesso nascosti. Anche noi, sani o malati, possiamo offrire le nostre fatiche e sofferenze come quell’acqua che riempì le anfore alle nozze di Cana e fu trasformata nel vino più buono. Con l’aiuto discreto a chi soffre, così come nella malattia, si prende sulle proprie spalle la croce di ogni giorno e si segue il Maestro (cfr Lc 9,23); e anche se l’incontro con la sofferenza sarà sempre un mistero, Gesù ci aiuta a svelarne il senso».

Ma, perché ciò avvenga nelle nostre comunità come in tutta la Chiesa, occorre che si sappia «seguire la voce di Colei che dice anche a noi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”, Gesù trasformerà sempre l’acqua della nostra vita in vino pregiato», annuncia papa Francesco, riproponendo la priorità pastorale del nostro tempo, quella di rifondare l’evangelizzazione in corsia sulla spiritualità dell’uomo sofferente, della sua famiglia e dei sanitari che lo curano.

La cultura contemporanea tende a segregare questo approccio tra le opzioni individuali. Noi sappiamo che la Parola si propone e non si impone; tuttavia, la scienza meno ideologizzata ha riconosciuto da tempo che l’accompagnamento spirituale del malato ha anche un’efficacia terapeutica, e per questo numerose istituzioni sanitarie, anche laiche, lo incoraggiano.

L’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio auspica pertanto che la Chiesa italiana, vivendo il proprio convegno nazionale a Firenze nella ricerca di un nuovo umanesimo in Gesù Cristo, riscopra anche questa dimensione dell’evangelizzazione, che, per quanto rileviamo noi Fatebenefratelli come altri Ordini religiosi, richiede un aggiornamento della pastorale della salute improntato al dialogo, in quanto, come ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino il 27 settembre a Loppiano, «scienza e tecnologia possono aprire inedite possibilità per l’uomo a patto che venga recuperata, anche in termini aggiornati, la concezione unitaria dell’uomo» e comunque «davanti agli scenari resi possibili dalla scienza e dalla tecnologia il nostro compito non può essere né quello di lanciare generici e preoccupati allarmi né quello di alzare barricate ideologiche», semmai è quello di avere contezza dei rischi connessi alla deriva scientista contro cui abbiamo combattuto in questi anni ma, anche, «far emergere il contributo qualificante che, anche in questo contesto, il cristianesimo può e deve assicurare alla crescita della persona e della società». Parimenti, nel rapporto con il fratello che soffre, dobbiamo avere «uno sguardo pulito e pieno sulla persona e sulla sua unità, per non rendere l’essere umano un oggetto»: neppure un’oggetto dell’evangelizzazione.

Nuova evangelizzazione e nuova Ospitalità

Questo stile di accoglienza sincera e rispettosa, di fronte al dolore e alla disperazione, è sintetizzato nel voto dell’Ospitalità che caratterizza il nostro Ordine Ospedaliero e interpreta il Vangelo della misericordia, ma è un dono che dobbiamo fare innanzi tutto a noi stessi ad ogni alba e ad ogni
tramonto, impegnandoci a fondo per decodificare ai nostri contemporanei il senso religioso dell’Ospitalità, affinché esso non possa venire frainteso in una scelta filantropica, che, per quanto rispettabile, non prevede un orizzonte di fede.

Quest’attenzione diventa decisiva nel momento in cui intendiamo caratterizzare e valorizzare il lavoro dei laici che collaborano con noi e che, più dei religiosi, sono esposti al rischio di subire i condizionamenti della cultura contemporanea e, più dei religiosi, rivestono responsabilità e ruoli a diretto contatto con i malati e con le loro famiglie. In questo senso, l’operatore sanitario guidato dalla fede cristiana e primariamente chi partecipa alla vita e all’apostolato di un Ordine ospedaliero si ritrova in prima linea nella “nuova Evangelizzazione” cui diede impulso Giovanni Paolo II, che è poi l’evangelizzazione di sempre ma nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione e che ci ha condotto a sintetizzare così il concetto di “nuova Ospitalità”.

E’ noto che l’Ospitalità, secondo la Carta d’Identità dell’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio, si concretizza in una serie di principi fondamentali: il nostro centro d’interesse è la persona assistita, promuoviamo e difendiamo i diritti del malato e dei bisognoso, tenendo conto della loro dignità, difendiamo la vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, riconosciamo il diritto del malato a essere informato, promuoviamo l’assistenza integrale basata sul lavoro in équipe e su un adeguato equilibrio tra tecnica e umanizzazione dei rapporti terapeutici, osserviamo e promuoviamo i principi etici della Chiesa, consideriamo elemento essenziale dell’assistenza la dimensione spirituale e religiosa, difendiamo il diritto a morir con dignità, poniamo la massima attenzione nella selezione e formazione del personale, osserviamo le esigenze del segreto professionale, valorizziamo le qualità dei collaboratori, rispettiamo la libertà di coscienza delle persone assistite e dei nostri collaboratori ma esigiamo che si rispetti l’identità delle nostre opere apostoliche, rifiutiamo la ricerca di lucro…

E’ altrettanto noto che la “nuova Ospitalità” «consiste nel vivere e manifestare oggi il dono ricevuto da San Giovanni di Dio con un linguaggio, dei gesti e dei metodi apostolici che diano risposte ai disegni e alle attese dell’uomo e della donna che soffrono per la malattia, l’età, l’emarginazione, l’handicap, la povertà e la solitudine» (Dichiarazioni del LXIII Capitolo generale dell’Ordine, Bogotà 1994). Nel momento in cui la Chiesa italiana si profonde in un rinnovato impegno per l’umanesimo integrale, riteniamo che il cambio di passo descritto dalla Carta dell’Ordine e dal Capitolo generale debba inverarsi nel rapporto con il malato ma innanzi tutto nello stile apostolico dei nostri collaboratori laici che professino la fede cristiana, i quali, collaborando con le strutture sociosanitarie cattoliche, sono tenuti a interpretarne – pur nel rispetto dei contratti di lavoro – il senso religioso, affinché tali strutture rispondano realmente al loro carisma fondativo. Non temiamo i fallimenti umani – i poveri li avremo sempre con noi, ed anche il peccato – ma dobbiamo aprire la porta a Cristo se vogliamo che abiti la nostra casa.

La logica dell’integrazione nel mondo della sofferenza

Da tempo, i Fatebenefratelli sono impegnati nel recuperare a tutti i livelli la coscienza della propria missione, che è quella di curare attraverso l’annuncio del Vangelo della vita, la catechesi, la liturgia e l’orientamento etico, nella consapevolezza che l’atteggiamento di Gesù verso i malati supera quello puramente sacramentale e mira a una guarigione integrale, così come integrale è l’assistenza che deve saper offrire – e mai imporre – ai propri assistiti tutta la sanità religiosa e specificamente un Ordine Ospedaliero che dichiari di voler «curare la dimensione spirituale della persona».

Questa scelta di vita, di missione e di servizio agli infermi e ai bisognosi presuppone un’antropologia che risponde a quel nuovo umanesimo in Cristo che la Chiesa italiana ha messo a tema del proprio convegno nazionale. Talune declinazioni sociali e comportamentali di questa visione incontrano il sentimento collettivo: la “logica dell’integrazione”, invocata dal Sinodo sulla famiglia nell’accompagnamento spirituale di divorziati e risposati – i quali «non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza» -, trova applicazione da sempre nell’assistenza dei poveri e degli infermi, ai quali non viene chiesto né lo stato civile, né il certificato di battesimo, né l’orientamento sessuale. Tuttavia, anche nel mondo della salute questa visione si scontra con la cultura attuale, laddove quest’ultima legittima aberranti pratiche contro la persona umana, e con l’economia che categorizza il malato in relazione alla propria capacità di spesa, con l’inevitabile abbandono dei meno abbienti.

Si tratta di una deriva silenziosa e spesso inconsapevole che discende dall’antropologia relativistica e rispetto alla quale papa Francesco ci mette in guardia: «Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità – per fare solo alcuni esempi -, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. Tutto è connesso. Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto, la stessa base della sua esistenza si sgretola, perché “Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura”» (LS, 117). Oggi, come scrive sempre papa Francesco, «si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (EG, 53).

Per contro, la mentalità italiana del XXI secolo non accetta che le “periferie esistenziali” e la “cultura dello scarto” siano conseguenza dell’egoismo umano e men che meno che tali derive siano prodotte dal peccato e che si creino vere e proprie strutture di peccato, come avverte la Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (n. 36), individuando i luoghi dove si manifestano gli effetti del peccato e dell’ingiustizia. In questi anni, l’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Cei, ha identificato talune strutture di peccato anche in ambito sanitario: l’insufficienza delle cure offerte in alcune aree del Paese, che discende da precise scelte politiche e dallo sciupio del denaro pubblico e che ricade sui malati più poveri; l’abbandono dei malati di Alzheimer (un milione oggi e 4 milioni di persone nel 2050) e le carenze dell’assistenza domiciliare; lo stigma della malattia psichiatrica, che induce a disinvestire e ad abbandonare un fronte sempre più ampio (oltre il 10 % degli adolescenti); il boom delle ludopatie…

Nel proporre al mondo della sofferenza il nuovo umanesimo in Cristo, dobbiamo essere consapevoli della difficoltà di far udire e di far comprendere la nostra voce, ma al contempo non avere esitazioni – a partire dal mondo medico-scientifico – nel ribadire il carattere sacro e inviolabile della vita umana e l’impegno concreto a favore di essa (cf. EV, 58), riaffermare il diritto alla morte naturale, evitando l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, e rivendicare il diritto alla assistenza degli anziani, delle persone con disabilità, dei malati terminali e dei morenti. Ovvietà per i cristiani, ma non per la nostra società, sorda all’antropologia che proponiamo anche quando essa permetterebbe di sollevare le persone da pesi davvero insopportabili.

Come sperimentiamo ogni giorno, occupandoci soprattutto di anziani e di malati psichici e affetti da demenze, le famigl
ie soffrono insieme ai loro congiunti e proprio il Sinodo che si è appena concluso ha riconosciuto che «questa dolorosa esperienza richiede una speciale attenzione pastorale anche attraverso il coinvolgimento della comunità cristiana» e che «la Chiesa sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati, e di promuovere in ogni modo la dignità e il valore della persona fino al termine naturale della vita». Affermazioni non pleonastiche, in quanto è esperienza comune che lo Stato oggi faccia troppo poco in questo campo, confidando in una surroga silenziosa che non può essere infinita e che non solleva le istituzioni dall’obbligo di rendere effettivo il diritto alla salute (art. 32 C.).

Rievangelizzar(ci) alla vita

La rievangelizzazione alla vita, che interpella la pastorale della salute e deve caratterizzare il nostro apostolato, ha sicuramente queste declinazioni, ma non va confusa con un programma politico: è invece lo sforzo di un rinnovato annuncio dell’umanesimo integrale cristiano, da cui quelle scelte debbono discendere e che debbono sostenere uno stile di vita nuovo in colui che annuncia la Parola. Come disse papa Francesco nelle Congregazioni Generali prima del Conclave «evangelizzare implica zelo apostolico. Evangelizzare implica nella Chiesa la parresìa di uscire da se stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore…» Potremmo tradurre queste parole in migliaia di esperienze vissute – noi come i fratelli e le sorelle di altri Ordini e Congregazioni religiose che vivono il carisma dell’assistenza a poveri e malati -, migliaia di occasioni in cui nella Croce del prossimo riconosciamo il volto del Signore e trova compimento il nostro carisma, ma la nostra urgenza oggi dev’essere quella di riconoscere le nostre debolezze, la nostra Croce. Dobbiamo prendere atto che “neo evangelizzare”, anche nel mondo della sofferenza, presuppone una conversione personale. Il primo “oggetto” della salvezza è il missionario, il quale solo se evangelizzato può evangelizzare. Questo è il motivo per cui gli Ordini e le Congregazioni che operano nel settore sociosanitario abbisognano di strutture di formazione interna e di un confronto periodico, che meritoriamente viene promosso dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute e dall’Associazione Italiana per la Pastorale Sanitaria, ma sul quale è necessario un investimento più convinto, condiviso e reticolare, nella misura in cui siamo consapevoli che esista “una” evangelizzazione e “una” pastorale della salute, pur nella ricchezza e varietà dei carismi e delle opere, così come dei differenti ruoli ecclesiali.

Procedono nella medesima direzione i corsi di formazione che organizziamo da decenni per gli operatori sanitari, a tutti i livelli, allo scopo di offrire al malato un’assistenza integrale, modulati in relazione alla vita della Chiesa (ad es. l’anno scorso abbiamo impostato il lavoro sull’Anno della Fede centrando le tematiche di approfondimento sul “ritornare al Vangelo” come fondamento ed ispirazione della pastorale della salute). Tali corsi sono indirizzati a formare operatori sanitari che, all’interno di strutture ospedaliere, socio-sanitarie e sul territorio, siano in grado di rispondere in modo olistico alle necessità delle persone che vivono situazioni di fragilità (malattia, lutto, cronicità, ecc.), considerando lo specifico contesto culturale e religioso di provenienza, e a formare operatori pastorali che all’interno di strutture ospedaliere, socio-sanitarie e sul territorio, siano in grado accogliere e rispondere adeguatamente ai bisogni spirituali dei malati, avendo presente il contesto culturale e religioso di provenienza.

L’obiettivo che accomuna questi destinatari è acquisire una competenza in pastorale sanitaria ed in human management, spendibile pastoralmente e professionalmente, senza soluzione di continuità sul piano formativo, in quanto siamo convinti, che nel mondo della sofferenza la nuova evangelizzazione dell’operatore e quella del malato debbano procedere insieme. Paradigmatico di quest’approccio è il corso di accompagnamento spirituale del malato, che è stato avviato dalla Provincia Lombardo Veneta dei Fatebenefratelli in collaborazione con l’Università Cattolica e che cerca di rispondere alle domande più frequenti che ci vengono rivolte dai malati – «Che senso ha la mia vita? Che senso ha questa sofferenza?» – collocando la risposta nella dimensione spirituale della persona, arrivando a conoscerne meglio le dinamiche, i bisogni, i percorsi di crescita, per tentare di trovare strumenti e metodi ma anche “le parole”, per rispondere a quelle domande. Vengono così approfonditi i bisogni spirituali del malato e di chi vi sta accanto (operatori, familiari, caregivers) per riflettere su come anche l’attenzione alle necessità spirituali e il conseguente accompagnamento possano diventare “strumento terapeutico”.

Alla base di quest’iniziativa come di altri percorsi formativi che sono stati avviati vi è la convinzioone che dopo cinquecento anni di Ospitalità, l’evangelizzazione degli operatori pastorali – e, pur nel rispetto delle convinzioni di ciascuno e dei contratti di lavoro, quella del personale laico cristiano – rappresenti un’esigenza di tutta la pastorale ma divenga una priorità per chi si pone al servizio di persone malate, le cui domande di senso sono amplificate e non ammettono risposte preconfezionate. Non è irrilevante, in tal senso, il fatto che l’utenza sociosanitaria oggi riproduce fedelmente il melting pot etnico, culturale e religioso della società attuale e quindi un approccio incentrato – com’era in passato – sulla sacramentalizzazione non ha senso sul piano sociale e culturale ed è limitante anche su quello pastorale.

Pertanto, l’accompagnamento dei morenti, l’assistenza dei malati psichici, la nuova frontiera delle malattie neurodegenerative – per citare soltanto le situazioni tipiche dell’apostolato dei Fatebenefratelli, ma guardando oltre l’Ordine San Giovanni di Dio avremmo una casistica infinita – impongono all’operatore pastorale e sanitario un percorso di formazione del cuore e della personalità che lo renda portatore della speranza che salva nella misura in cui è salvato: «Possiamo confortare quelli che sono in qualunque sorta di tribolazione per mezzo del conforto con cui noi stessi siamo confortati da Dio». (cfr. 2 Cor 1,3-4)

Accompagnare spiritualmente operatori e malati, oggi, è tutt’altro che semplice. Si tratta di far passare nella società contemporanea il senso profondo della Proposizione 32, consegnata al Papa dai Vescovi della XIII Assemblea ordinaria del Sinodo: «la nuova evangelizzazione deve essere sempre cosciente del mistero pasquale di morte e resurrezione di Gesù Cristo. Da questo mistero si diffonde una luce sulle sofferenze e malattie degli uomini, che nella croce di Cristo possono comprendere e accettare il mistero della sofferenza che offre loro la speranza nella vita che viene.

Nel malato, in chi soffre in quanti sono portatori di handicap e chi si trova in un speciale bisogno, la sofferenza di Cristo è presente e possiede una forza missionaria … Ecco perché i malati sono così importanti nella nuova evangelizzazione”». Queste parole, tuttavia, ci illuminano anche sull’importanza ecclesiale della testimonianza di fede che viene resa ogni giorno da operatori e malati nei luoghi di sofferenza e come sia decisivo, per realizzare davvero il nuovo umanesimo, superare il muro di disperazione e di incomprensione eretto dal peccato in questi luoghi che il beato Giovanni Paolo II, in occasione della IX Giornata Mondiale del Malato nel 2000, descriveva così: «Ogni giorno mi reco idealmente in pellegrinaggio negli ospedali e nei luoghi di cura … Sono luoghi che costituiscono come dei santuari, nei quali le persone partecipano al
mistero pasquale di Cristo. Anche il più distratto è lì portato a porsi domande sulla propria esistenza e sul suo significato, sul perché del male, della sofferenza e della morte».

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ZENIT Staff

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