È vero che i numeri sono capaci di spiegare e prevedere la realtà fisica? Ed è sufficiente la scienza matematica a farci conoscere la realtà tutta? Dobbiamo continuare a pensare che tra pensiero logico matematico e lettura teologica del reale esista una contrapposizione insanabile?
È evidente che l’esperienza di fede è irriducibile ad una mera quantificazione e catalogazione: allora può esistere una relazione tra matematica e Dio?
A queste ed altre domande ha cercato di rispondere, con il libro Dio e i numeri incapaci (Edizioni Rubbettino), il teologo e filosofo don Domenico Concolino, cappellano dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro. ZENIT lo ha intervistato.
Perché questo titolo? Che relazione c’è tra Dio e la matematica?
È molto facile osservare il modo in cui tutta la sacra Scrittura è attraversata da simbolismi matematici ed interpretazioni numeriche, peraltro molto comuni in altri pensieri religiosi, Ma non è precisamente questo il centro del mio discorso.
Il titolo di quest’ultimo libro nasce, invece, da una lunga riflessione che affonda le sue radici nel pensiero trinitario dei Padri e in alcune istanze tipiche della modernità. Il Dio cristiano, la Trinità, non è anzitutto un dio “pensato” ma è un mistero che precede il nostro pensare e perciò è un mistero donato. Questa è una sua qualità permanente. Ora, ad esempio, il fatto che il Padre ed il Figlio non siano “la stessa” persona, ma invece sono “una cosa sola”, ci fa orientare verso un diverso modo di pensare. Bisogna, in altre parole, trovare un pensiero che ci possa comunicare veramente lui, ma che sia più ampio della semplice ragione calcolante.
Lo dimostra ad esempio la storia eretica di Fausto Soccini, un senese poco conosciuto, morto nel 1604, il quale era caduto precisamente nell’errore di voler estendere il dominio della matematica, così come funziona nel mondo, alla grande realtà del mistero trinitario: e siccome 1 non è uguale a 3 e né può esserlo, allora per Soccini il Dio dei cristiani non poteva essere vero. Ma Dio, il Dio trinitario, sfugge alla presa di un puro pensiero calcolante. Se ricadesse completamente dentro la presa dei numeri, esso diventerebbe un pezzo del nostro mondo. Così quell’episodio, come altri che descrivo nel libro, mi fece riflettere molto. Il testo cerca dunque di spiegare in che senso i numeri (almeno quelli naturali) quando si dirigono al mistero di Dio e della sua imprevedibile azione nel mondo rivelano una ‘incapacità’ che può essere colmata solamente da un pensiero più ampio ed allargato.
Benché abbastanza riduttiva, la matematica e la capacità di calcolo, rappresentano le basi scientifiche con cui gli umani comprendono e riproducono la realtà fisica. Qual è il suo parere in proposito? Quale definizione darebbe della matematica?
Dicono che il futuro oggi sia dei matematici. La loro capacità di lettura del mondo fisico ed una certa forza predittiva si è trasformata lungo i secoli in un vero e proprio dominio su di esso. Ma questo potente dominio non è ugualmente estendibile in ciò che riguarda l’uomo e la sua storia di fede. In realtà l’esistenza umana, con il suo carattere di libertà, e l’esistenza di un Dio che misteriosamente interviene ancora oggi nella storia degli uomini, sfuggono alla presa dei numeri i quali, potentissimi nel regno della necessità e della materia, diventano poveri in quello della storia di Dio con gli uomini, in quest’ultimo campo al numero manca letteralmente “il terreno sotto i piedi”.
Il teologo Hans Urs von Balthasar aveva intravisto il problema quando in un’intervista (dimenticata) ricordava un tale limite del pensiero, affermando: “Forse, (gli operatori pastorali, ndr) hanno l’impressione di fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che, oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di mille superficiali registrate dal computer” (p. 18).
È chiaro che la matematica non sbaglia, essa è davvero capace di catturare ed esibire buona parte del mondo visibile e della materia, ma per il credente, il mistero del visibile e la sua spiegazione ultima, non risiede nel solo numero, bisogna invece risalire a quel Logos personale, che sostiene ogni cosa perché la precede e l’eccede. Lì i numeri sono incapaci.
Nel libro lei spiega il legame tra l’aritmetica e la fede vissuta. Come si fa?
A questo proposito ho cercato di comprendere filosoficamente il concetto di “numero” come “ritardo” rispetto al darsi storico della fede. Il numero, cioè, dice principalmente ciò che accaduto, ciò che esiste, ciò che vede, ma non il dover essere dell’ente in oggetto, un dover essere illuminato dalla fede. In questo senso la fede vissuta non procede come una pura tecnica di appropriazione del reale, ma piuttosto come un dono di luce, dono che illumina la realtà che i numeri indagano. Se così non fosse, allora, davvero il numero conterrebbe in sé tutto il futuro dell’uomo.
La fede vissuta, le decisioni che tutti i credenti, ogni giorno, sono chiamati a prendere davanti a Dio, sono invece attraversati continuamente dal mistero della grazia divina e dall’esercizio della libera volontà dell’uomo. Per questo la fede vissuta può subire evoluzioni e involuzioni. Può crescere o diminuire. In questo campo, per così dire “misto”, la pura statistica, non può pretendere assoluto valore predittivo, non può avere l’ultima parola.
Lei sostiene che il metodo matematico riduce la comprensione della realtà. Sostiene anche che la risposta sta nella filosofia e non nella matematica. Ci illustra come e perché?
La dialettica tra essenza ed esistenza può illuminare un tale problema; in tale dialettica si vede bene come i numeri sono incapaci di accoglie il traboccante mondo della vita.
In linea generale, per farla breve, bisogna riconoscere che noi siamo figli dell’algebra e pure della grammatica, siamo figli di un pensiero analitico, noi ci serviamo di numeri, lettere ed immagini, al fine di com-prendere la realtà (visibile, non ancora visibile ed invisibile) e relazionarci tra di noi. Ma appunto seguendo questa via, usando questi particolari oggetti mentali, noi la riduciamo e riducendo perdiamo pezzi di questo nostro mondo. Il procedimento è necessario ma, appunto, dobbiamo capire ciò che facciamo.
A questo proposito John Henry Newman ha insegnato parlando di circle of knowledge (circolo della conoscenza) che bisogna continuamente integrare le nostre conoscenze, le nostre conquiste con altre conoscenze e metterle in relazione con altri soggetti che hanno compiuto il nostro stesso percorso.
Così, potremmo dire, siamo persone da sempre poste in un cammino di verità, siamo posti in un lungo cammino verso una pienezza di comprensione del mondo visibile, il quale però ci appare sempre eccedente le nostre parole, le nostre immagini, i numeri.
Qui vedrei, però, una grande chance per tutti coloro che vogliono capire un po’ di più Dio, del mondo e dell’uomo: filosofia e teologia possono trovare proprio a questo livello una feconda alleanza in vista di una conoscenza autenticamente umana.
Nella seconda parte del suo libro, lei sostiene che il numero può essere collocato nell’orizzonte dello Spirito e del vero. Affermazione ambiziosa: può illustrarcela?
Esatto. Affermazione ambiziosa ma, in realtà, molto semplice. Una volta stabilita la verità, il senso e lo spazio d’azione dei numeri naturali, p
er esempio con l’aiuto di un pensatore come il sacerdote e matematico russo Pavel Florenskij, i numeri, inseriti nella grande luce della fede, diventano davvero formidabili strumenti, ci indicano un cammino di conoscenza, il cui risultato però va sempre confrontato e armonizzato col piano della fede creduta. Il nuovo che così si raggiunge non distrugge l’antico ma lo arricchisce. È vera sapienza saper collocare in giusto ordine gli elementi essenziali della nostra conoscenza.
Inoltre, si aprirebbe qui un fecondissimo dialogo tra pensiero matematico – che con le sue statistiche su parrocchie, matrimoni, battesimi, frequenza della messa domenicale aiuta a capire la realtà che ci circonda – e pensiero teologico, che alla luce della fede, legge il mondo dei numeri, e così consegnano una visione più ampia ai pastori d’anime del XXI secolo. Guardano cioè verso ciò che Joseph Ratzinger disse al matematico Odifreddi: “Nella Sua religione della matematica, tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male”. Ecco davvero un surplus
In sintesi può spiegarci le conclusioni del suo studio sulla relazione tra matematica e vita ecclesiale?
Alleanza fruttuosa ma gerarchizzata. Il matematico, restando all’interno del suo mestiere, può dare un grosso contributo ai pastori d’anime del nostro tempo, fotografando i fenomeni analizzati, ma l’uomo di fede possiede uno sguardo più articolato, uno sguardo più ampio di vita e di speranza. Uno sguardo che pensa anche ciò che non è ‘visto’ dal numero, come, ad esempio, la possibilità che si ponga nella storia un nuovo inizio, un inizio che viene da Dio, per raggiungere alla fine una speranza che va oltre il puro pensiero calcolante, quella speranza che indica papa Francesco: “La speranza di cui parliamo non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia e per il quale nulla è impossibile” (28.11.2014).
Vorrei concludere ricordando che questo libro l’ho dedicato a quel piccolo gruppo di giovani che come me hanno vissuto e vivono da vicino l’esperienza del Movimento Apostolico. Nessuno di noi, 37 anni fa, avrebbe previsto ciò che oggi i nostri occhi possono vedere.