Card. Amato: "Romero, una stella luminosa nel firmamento spirituale americano"

Il prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi presiede la Messa di beatificazione dell’arcivescovo a San Salvador, davanti a centinaia di fedeli

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Oscar Romero è “luce delle nazioni e sale della terra. Se i suoi persecutori sono spariti nell’ombra dell’oblio e della morte, la memoria di Romero invece continua a essere viva e a dare conforto a tutti i derelitti e gli emarginati della terra”. Attingendo alle letture del giorno, il cardinale Amato ha scelto quest’immagine per descrivere l’attualità del messaggio dell’arcivescovo martire, beatificato oggi nella capitale salvadoregna, nella Plaza del Divino Salvador del Mundo alla presenza di centinaia di migliaia di fedeli.

Nella sua omelia, riportata da L’Osservatore Romano, il prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi ha citato le parole di Francesco nella lettera apostolica scritta come di consueto in occasione delle cerimonie di beatificazioni, ricordando “che l’arcivescovo Romero amò i suoi fedeli e i suoi sacerdoti fino al martirio, offrendo la sua vita come offerta di riconciliazione e di pace”. 

Commentando la parola di Dio, il cardinale ha quindi fatto notare come, secondo il libro della Sapienza, dopo la tragica morte le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento li toccherà. Sono, infatti, nella pace e nel giorno del giudizio risplenderanno come scintille nella stoppia, governeranno le nazioni e avranno potere sui popoli. 

In particolare, Amato ha richiamato la preghiera quotidiana del nuovo beato, che era la stessa rivolta da Gesù al Padre, perché custodisse i suoi discepoli, come riferisce l’evangelista Giovanni. Negli ultimi difficili anni della sua esistenza, fino al 24 marzo 1980, “quando una pallottola traditrice lo colpì a morte durante la celebrazione eucaristica e il suo sangue si mescolò al sangue redentore di Cristo”, questa preghiera lo accompagnò ogni giorno. 

Chi era Romero? Come poté affrontare il martirio? Rispondendo a questi interrogativi, il cardinale ha sottolineato come egli fosse “un sacerdote buono e un vescovo saggio”. Ma soprattutto “un uomo virtuoso” che “amava Gesù, lo adorava nell’Eucaristia, amava la Chiesa, venerava la beata Vergine Maria, amava il suo popolo”. Proprio per questo, il martirio “non fu una improvvisazione, ma ebbe una lunga preparazione. Romero, infatti, era, come Abramo, un uomo di fede profonda e di incrollabile speranza”. 

Quando si trovava a Roma da giovane seminarista, poco prima dell’ordinazione sacerdotale, scriveva nei suoi appunti: “Quest’anno farò la mia grande consegna a Dio! Dio mio, aiutami, preparami. Tu sei tutto, io sono nulla e, tuttavia, il tuo amore vuole che io sia molto. Coraggio! Con il tuo tutto e con il mio nulla faremo molto”. 

Un avvenimento sconvolse il “pastore mite e quasi timido” che era Romero: l’uccisione di padre Rutilio Grande, sacerdote gesuita salvadoregno, che “aveva lasciato l’insegnamento universitario per farsi parroco dei campesinos, oppressi ed emarginati”. Questa uccisione “toccò il cuore dell’arcivescovo, che pianse il suo sacerdote come poteva fare una madre con il proprio figlio”. 

Il porporato ha ricordato che Romero si recò subito ad Aguilares “per la messa di suffragio, passando la notte piangendo, vegliando e pregando per le tre vittime innocenti, per padre Rutilio e i due contadini che lo accompagnavano”. Da quel giorno, il suo linguaggio “diventò più esplicito nel difendere il popolo oppresso e i sacerdoti perseguitati, incurante delle minacce che quotidianamente riceveva”. L’arcivescovo fece riferimento a un dono dello Spirito Santo, che “gli concesse una speciale fortezza pastorale, quasi in contrasto con il suo temperamento prudente e misurato” . A tale proposito, sono rivelatrici le sue parole: “Ritenni un dovere collocarmi decisamente alla difesa della mia Chiesa e a lato del mio popolo tanto oppresso e vessato”. 

E lo fece senza esitare, con parole che non erano «un incitamento all’odio e alla vendetta, ma un’accorata esortazione di un padre ai suoi figli divisi, che venivano invitati all’amore, al perdono e alla concordia». Del resto la sua opzione per i poveri «non era ideologica ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori ai quali predicava la conversione al bene e ai quali assicurava il perdono, nonostante tutto». Era abituato a essere misericordioso, ha aggiunto il cardinale, e la «sua generosità nel donare a chi chiedeva era — a detta dei testimoni — munifica, totale, sovrabbondante. A chi domandava, dava». 

D’altronde, la carità pastorale “gli infondeva una fortezza straordinaria”. Un giorno, ha spiegato il porporato, a un sacerdote «raccontò che era continuamente minacciato di morte e che nei giornali nazionali c’erano critiche quotidiane contro di lui”, ma ciò non lo scoraggiava, anzi si sentiva più spinto ad agire senza nutrire rancore. Per questo Romero non è un “simbolo di divisione, ma di pace, di concordia, di fratellanza. Ringraziamo il Signore — ha concluso — per questo suo servo fedele, che alla Chiesa ha donato la sua santità e all’umanità la sua bontà e la sua mitezza”.

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ZENIT Staff

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