Card. Langa: "Rispondere alla violenza con il dialogo. La storia del Mozambico ce lo insegna"

Intervista al vescovo emerito di Xai-Xai, creato cardinale a febbrao, in visita in questi giorni nella diocesi di Grottammare

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La comunità parrocchiale della Gran Madre di Dio, a Grottammare, ha ospitato in questi giorni il cardinale Júlio Duarte Langa, vescovo emerito di Xai-Xai (Mozambico), creato cardinale da Papa Francesco nell’ultimo Concistoro di febbraio. Il porporato era in Italia per prendere ufficialmente possesso della Chiesa di San Gabriele dell’Addolorata a Roma. Nato il 27 ottobre 1927 a Mangunze, nell’odierna diocesi di Xai-Xai, Langa ha frequentato dapprima il seminario di Magude, poi quello di Namaacha. È stato ordinato sacerdote nella cattedrale della capitale mozambicana il 9 giugno 1957. È il secondo mozambicano a ricevere la porpora nella storia di questa Chiesa africana. Lo abbiamo intervistato

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Eminenza, come nasce la sua vocazione?

Ho sempre avuto un sogno, annunciare il Vangelo. Crebbe in me questo grande desiderio sin da quando frequentavo le scuole elementari. L’annuncio della Parola, coincideva con la volontà di donare me stesso a Cristo. Ho visto il suo Volto tra la povertà della gente, tra le loro sofferenze. Capii che era la mia strada, la mia missione. Durante il periodo coloniale ero uno dei primi sacerdoti, e non era semplice aiutare i bisognosi da solo, nemmeno annunciare il Vangelo… Aspettai che la comunità di sacerdoti crescesse per proseguire la missione.

Ha retto la diocesi, che ha una grande estensione territoriale, per quasi 30 anni, caratterizzati dalla lunga guerra civile che ha insanguinato il Mozambico dall’epoca dell’indipendenza fino agli accordi di pace firmati il 4 ottobre 1992 a Roma…

Nel 1975, dopo la fine dell’era coloniale arrivò l’indipendenza e con essa l’ascesa del regime totalitario comunista. Fu un periodo di grande sofferenza. Eravamo privi di libertà, il regime voleva spazzarci via, ma non ci siamo mai arresi, siamo andati avanti nonostante le persecuzioni. il regime ci vietò categoricamente di proclamare la Parola al nostro popolo, ci vietò Cristo. Nel 1977 tutto il clero del Mozambico si riunì per discutere della delicata situazione in cui si viveva. Decidemmo di ripartire dall’esempio della Chiesa “primitiva”, costituimmo delle piccole comunità cristiane per professare la nostra fede. Fu una crescita a piccoli passi, come la goccia d’acqua che scava la roccia. La Chiesa vinse contro l’oppressione.

Il Santo Padre ha ribadito qualche giorno fa, davanti ai vescovi del Centrafrica, che “i cristiani non devono cedere alla violenza“. Recuperando la dimensione della relazione e dell’ascolto tra le diversità, ci può raccontare un aneddoto di come ha vissuto quel periodo così delicato per lei e per il suo paese. Quale testimonianza può donarci?

Dobbiamo rispondere alla violenza attraverso il dialogo. La soluzione a ogni conflitto è la relazione, è il dialogo. Ricordo in maniera viva i fatti accaduti in quel periodo: il presidente del Mozambico aveva alzato un muro contro la Chiesa. Reputava pericolose le nostre celebrazioni, perché mobilitavano tantissimi fedeli. Il regime aveva forti preoccupazioni nei nostri confronti. Anche durante la guerra civile, quando le repressioni si concludevano in veri e propri bagni di sangue la nostra forza è stata il dialogo, il confronto con chi ci attaccava. Alla fine arrivammo ad un compromesso, i muri iniziarono con il tempo a scomparire, fino ad arrivare agli accordi di pace del 1992. Difficilmente saremmo arrivati alla pace, senza la forza del dialogo.

Il 31 maggio 1976 Paolo VI lo ha nominato vescovo della diocesi di Xai-Xai e nel 2015 arriva la porpora cardinalizia, qual’è stata la sua reazione alla decisione di Papa Francesco?

Durante il suo ministero ha cercato di mantenere viva la pratica religiosa e di dare nuovo impulso alla Chiesa, in un un’area particolarmente depressa, colpita anche da carestie, epidemie e catastrofi naturali. La notizia della mia nomina a cardinale mi ha sorpreso molto. non credevo di aver fatto qualcosa di straordinario per meritarmi tale carica, ma capii in seguito che il Santo Padre volle dare un segno forte a tutti quei missionari che hanno lavorato per mantenere questa Chiesa viva. Quando venne in San Giovanni Paolo II a visitare il Mozambico nel 1988, trovò una realtà difficile, in piena guerra civile, ma trovò una Chiesa viva che potesse dare speranza al paese. Credo che il Santo Padre Francesco abbia pensato a me, perché conosceva molto bene la situazione in Mozambico già da vescovo di Buenos Aires.

Lei è considerato come un ‘padre’ da molti preti mozambicani, riuscendo a lasciare un ricordo indelebile tra i sacerdoti e i fedeli. Ha anche svolto un grande servizio verso la Chiesa. Cosa si sente di dire a tutti i suoi giovani seminaristi, preti e missionari?

Mi sento un membro della Chiesa che mi ha accolto e che mi ha amato. Il consiglio che mi sento di dare è quello di lavorare per la Chiesa. Cristo ci ama nonostante la nostra lontananza, che sia uno stimolo per tutti, dobbiamo continuare a promuovere il dialogo. La Chiesa è la nostra famiglia, lavoriamo insieme per la crescita di questa grande e bella comunità di uomini e donne di buona volontà.

[Fonte: L’Ancora online]

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ZENIT Staff

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